I: Passo Gardena - Val Setus - Forcella dai Ciamorces - Piz Rotic - Piz Beguz -
Piz Miara - Piz Saliera - Piz Gralba - Piz Revis - Piz Selva - Sas dai Ciamorces -
Sella del Pisciadù - Rifugio Pisciadù - Val Setus - Passo Gardena
(a piedi)

Mi rimaneva da esplorare ancora una parte dell'affascinante massiccio del Sella, ovvero quella corrispondente all'altopiano delle Mesules, a cui normalmente si perviene alla fine della famosa e difficile ferrata che parte appunto dal Passo Sella. L'altro possibile accesso è quello che ho seguito in questa mia prima gita dolomitica del 2004, lungo un percorso molto bello ma anche estremamente lungo, che oltretutto è stato condizionato in modo pesante dalla gran quantità di neve oltre i 2500 metri di quota. Visto il lieve incidente occorsomi, era forse meglio attendere che la stagione fosse più avanzata, così da trovare un terreno meno infido. Purtroppo, però, se si vogliono evitare le code - in macchina e a piedi - in luoghi frequentatissimi come il gruppo del Sella, l'unica soluzione è andarci fuori dal mese di agosto. Mi alzo dunque all'alba di un giorno di luglio e, quando lascio l'auto al Passo Gardena, sono circa le sette del mattino. Fa molto freddo, e per questo mi incammino senza indugi lungo il mio sentiero inizialmente quasi pianeggiante e panoramicissimo, dato che, oltre al Sella, dalla parte opposta posso ammirare il gruppo Puez-Odle con i Pizzes da Cir in bella evidenza. Ben presto il segnavia, recante l'apocalittico numero 666 (sic!), conduce nella stretta e buia Val Setus, che io avevo già percorso più di vent'anni fa, al ritorno della via ferrata "Tridentina". L'incedere diventa più lento a causa dell'elevata pendenza su roccette; alcuni tratti in alto, come ricordavo, sono attrezzati con funi metalliche per una maggiore sicurezza.

Le Odle dalla Val Setus

L'impressionante gola rocciosa della Val Setus

Senza problemi, però, e con ancora parecchie energie, esco alla "terrazza" superiore, dove un limpido sole fa risaltare il Sas da Lèch.

Il Sas da Lèch (ci sono anch'io...)

Tutti gli alpinisti deviano ora a sinistra, verso il Rifugio Pisciadù: io sono l'unico ad andare a destra, puntando alla Forcella dai Ciamorces. Il sentiero rimane in quota, passando per grandi pietraie innevate; sopra di me scorgo diverse forcellette, ed è evidentemente attraverso una di queste che approderò sull'altopiano delle Mesules. Noto subito, però, che tutti questi passaggi, a causa della loro esposizione a nord, sono completamente intasati dalla neve. "Non devo disperare" dico fra me e me "perché laddove c'è il sentiero qualcun altro avrà certo provveduto a rendere possibile il cammino"... Purtroppo, invece, man mano che vado avanti la situazione peggiora, e a un certo punto, su una delle pietraie della mia "terrazza", la neve è così alta che ha cancellato qualunque traccia o segnavia. Non so più bene che fare; intorno a me non c'è anima viva a cui chiedere informazioni, così decido di proseguire in quota. Dopo un po' mi pare di intravedere un palo con delle frecce attaccate: l'indicazione di un bivio, penso io. Una decina di minuti e ci sono, ma con disappunto capisco che si tratta invece di un paio di pannellini solari collegati a una specie di rilevatore meteorologico. "Maledizione! E ora?". Mi gratto un po' la testa, poi passo a esaminare le cartine. Comprendo di essermi spinto troppo avanti, e che dovevo appunto rimontare una delle forcellette già incontrate. Già, ma quale?... Ritorno sui miei passi, però continuo a non discernere alcun segno che mi faccia pensare, là in alto, a un sentiero; finalmente, lungo un aspro pendio, vedo che il nevaio è solcato da una scia marrone. Tutto contento mi incammino in quella direzione, ma ben presto ho un'amara sorpresa: non è una traccia umana, ma solo della ghiaia che è franata lungo il canalone. Do un'occhiata in su e stimo di poter comunque risalire per di là. All'inizio riesco, in qualche modo, ad andare avanti, ma più la pendenza aumenta, più mi accorgo che fare anche solo pochi passi è faticosissimo, oltre che pericoloso. In più, a un certo punto mi si stacca il casco che avevo legato (evidentemente male) dietro lo zaino, e mi rotola trenta o quaranta metri in basso. Scendo giù per recuperarlo; dopodiché, non interpretando con correttezza l'avvisaglia che il destino mi aveva inviato, risalgo nuovamente il nevaio. La stanchezza è aumentata in maniera esponenziale: a causa della poca presa degli scarponi, a ogni metro guadagnato lungo i sassolini del nevaio ne corrisponde mezzo all'indietro. Le gambe si fanno dure e ho il fiatone; la pendenza diventa sempre più impossibile. Valutando che quella ghiaia sopra la neve mi fa una sorta di "effetto sfere", provo a vedere se direttamente sul manto bianco procedo meglio. Ma non è così: la neve è ghiacciata, data la bassa temperatura, e a malapena riesco a stare in piedi. Mi convinco: "Senza ramponi e piccozza andare avanti sarebbe folle. Meglio tornare indietro". Ma proprio mentre mi appresto a fare dietrofront su me stesso, perdo l'equilibrio. Scivolo solo per un metro o due, ma quel misto di ghiaia e di neve molto dura finisce per comportarsi come la carta vetrata, cosicché, quando mi rialzo, non mi ci vuole molto per accorgermi che l'avambraccio sinistro è pieno di abrasioni, e in particolare la zona del polso sanguina parecchio, dato che manca un brandello di carne. Per fortuna là intorno non c'è davvero penuria d'acqua: prendo la neve, la comprimo e me la cospargo sulle ferite, anche per prevenire possibili ematomi dovuti alla botta. Quanto al polso, devo continuare a insalivarmelo per un bel po', ma alla fine il sangue smette di uscire anche da lì. Superato l'inconveniente, ritorno deluso sulla "terrazza", ormai certo che non mi resta che rientrare alla base. Dopo tanta amarezza, ecco che la buona sorte invece si ricorda di me: verso una forcelletta vedo che la neve è scalinata! Mentre procedevo nella direzione opposta non m'ero accorto di quelle orme perché la particolare inclinazione della luce del sole me le aveva rese invisibili, ma ora, tornando indietro, sono piuttosto chiare. Rincuorato, rimonto dunque quel pendio che si rivela molto più accessibile del precedente, giacché, a un certo punto, la traccia gira dietro a un masso innevato che mi copriva la vista dell'itinerario, proseguendo poi su terreno sempre più facile. Le tribolazioni finiscono, e sono alla Forcella dai Ciamorces, sull'altopiano delle Mesules! Mi si spalanca all'improvviso un panorama mozzafiato: di fronte a me il resto del Sella, col Piz Boè e il Sass Pordoi; dietro, la poderosa e isolata mole del gruppo del Sassolungo. D'un colpo svaniscono la stanchezza e il dolore delle ferite... E' gia mezzogiorno, ma decido di non mangiare e proseguire tenendomi alto sulla cresta, toccando via via le varie elevazioni del Piz Rotic, Piz Beguz, Piz Miara, Piz Saliera, Piz Gralba, Piz Revis e Piz Selva, tutte superiori ai 2900 metri. Questa zona del Sella è assai poco frequentata, mancando (fortunatamente!) impianti di risalita, e per lungo tempo procedo avvolto nel più totale silenzio. Solo in vetta al Piz Miara trovo una comitiva di emiliani giovani e chiassosi, col consueto, disturbante contorno di cellulari con suonerie a pieno volume: tutto ciò davvero non si addice allo stare in montagna, un luogo per me sacro dove entrare in punta di piedi.

In vetta al Piz Rotic

Sul Piz Beguz

Arrivo comunque in un'oretta o poco più al Piz Selva, ovvero l'estremità meridionale dell'altopiano, che poi degrada in ripidissime pareti verso il Passo Sella, ed è appunto per questi verticali passaggi che si snoda la ferrata delle Mesules. Mi concedo un meritato riposo e il pranzo al sacco; nel frattempo, dalle gole sottostanti cominciano a emergere gli alpinisti che hanno appena concluso la ferrata. La stragrande maggioranza di questi è di lingua tedesca, ma a un certo punto avverto una cadenza familiare. "Toscano?..." chiedo. "Sì, di Firenze!" mi risponde il signore di mezza età, però dal fisico asciuttissimo. "Di dove, esattamente?" insisto io. "Di Legnaia!". "Ah! Io invece abito al Campo di Marte". E' incredibile: noi toscani (e in particolar modo fiorentini) siamo proprio dappertutto! Imbastisco una piacevole conversazione col mio concittadino, come me alpinista solitario ma verosimilmente più dotato dal lato tecnico, visto ciò che ha appena portato a termine. Rimango sul Piz Selva per un bel po' e ne approfitto per scattare varie foto, dopodiché torno indietro.

In cima al Piz Selva. Sullo sfondo
il Sas Pordoi e la Marmolada

In vetta al Piz Selva. Sullo sfondo
il gruppo del Sassolungo

Anziché seguire il filo della cresta, coi relativi saliscendi, opto adesso per il normale sentiero che corre leggermente più in basso, quasi pianeggiante. Giunto nei pressi della Forcella dai Ciamorces, non posso fare a meno di salire sul sovrastante Sas dai Ciamorces, che, coi suoi quasi 3000 metri (2999, per l'esattezza), costituirà l'altitudine maggiore da me raggiunta quest'estate. La cosa mi impegna per pochi minuti, dieci o quindici al massimo, lungo un elementare sfasciume ghiaioso. In vetta, però, non mi trattengo più di tanto perché so di dover ancora camminare a lungo; oltretutto dal cielo non sta più filtrando quel poco di calore solare perché ci sono delle nuvole, e la temperatura si è nuovamente abbassata.

I quasi 3000 metri del Sas dai Ciamorces

Scendo giù e, per variare il percorso rispetto all'andata, mi dirigo alla Sella del Pisciadù. La discesa verso l'omonimo rifugio è tuttavia impedita, manco a dirlo, dalla copiosa neve che anche qui invade la zona immediatamente sotto alla forcella. A intervalli regolari, qui come altrove, si odono sinistri scricchiolii che talvolta sfociano in sordi colpi. E' solo la neve che si sta sciogliendo, o magari si tratta di piccole frane rocciose? O forse sono tutt'e due le cose insieme, verosimilmente collegate?... D'altronde i mass-media hanno più volte parlato, nelle ultime settimane, degli sgretolamenti avvenuti in molteplici zone dolomitiche, e il crollo di un pinnacolo ha interessato, guarda caso, proprio uno dei dirimpettai Pizzes da Cir! Per evitare il nevaio, il sentiero prevede ora una variante su una parete rocciosa, a lato, che quindi io devo per forza affrontare. Ci sono delle funi metalliche per agevolare il transito, è vero, però quando mi affaccio dalla paretina vedo sotto di me il vuoto: mi toccherà arrampicare in discesa per circa dieci metri pressoché verticali e poveri di appigli!

La Sella del Pisciadù. Il tratto ferrato per
evitare il nevaio corre lungo la parete rocciosa

Non mi perdo d'animo: nella giornata ho affrontato cimenti ben peggiori, dico io; indosso dunque il casco e mi lego in vita il cordino coi due moschettoni. Faccio un po' di stretching, poi vado. Benché lo sforzo di braccia lungo le funi sia notevole, cerco di stare calmo così da controllare al meglio i movimenti dei quattro arti, e in breve tempo l'ostacolo è superato. Vedo ora il Rifugio Pisciadù. "Sembra vicino, ma in realtà il raggiungerlo non sarà poi così immediato": questa è la sensazione che il corpo mi invia in conseguenza del lungo impegno a cui è stato sottoposto. Dopo una breve sosta nei pressi del rifugio, mi riallaccio al famigerato sentiero 666 che, attraverso la Val Setus, mi riporterà infine al Passo Gardena. La stanchezza è ora notevole e, conscio del fatto che gli incidenti in montagna avvengono proprio quando si è più provati, discendo con grande attenzione i ripidi passaggi ferrati. Il sole è ormai radente quando mi ritrovo verso il Passo Gardena: sono le sei e mezzo e, a conti fatti, ho nelle gambe non meno di dieci ore di cammino, ma provo una grande soddisfazione per aver portato a termine la mia piccola impresa, malgrado gli imprevisti.

[Dolomiti 2004]