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Tutti
gli alpinisti deviano ora a sinistra, verso il Rifugio Pisciadù:
io sono l'unico ad andare a destra, puntando alla Forcella dai Ciamorces.
Il sentiero rimane in quota, passando per grandi pietraie innevate;
sopra di me scorgo diverse forcellette, ed è evidentemente attraverso
una di queste che approderò sull'altopiano delle Mesules. Noto subito,
però, che tutti questi passaggi, a causa della loro esposizione
a nord, sono completamente intasati dalla neve. "Non devo disperare"
dico fra me e me "perché laddove c'è il sentiero qualcun altro avrà
certo provveduto a rendere possibile il cammino"... Purtroppo, invece,
man mano che vado avanti la situazione peggiora, e a un certo punto,
su una delle pietraie della mia "terrazza", la neve è così alta
che ha cancellato qualunque traccia o segnavia. Non so più bene
che fare; intorno a me non c'è anima viva a cui chiedere informazioni,
così decido di proseguire in quota. Dopo un po' mi pare di intravedere
un palo con delle frecce attaccate: l'indicazione di un bivio, penso
io. Una decina di minuti e ci sono, ma con disappunto capisco che
si tratta invece di un paio di pannellini solari collegati a una
specie di rilevatore meteorologico. "Maledizione! E ora?". Mi gratto
un po' la testa, poi passo a esaminare le cartine. Comprendo di
essermi spinto troppo avanti, e che dovevo appunto rimontare una
delle forcellette già incontrate. Già, ma quale?... Ritorno sui
miei passi, però continuo a non discernere alcun segno che mi faccia
pensare, là in alto, a un sentiero; finalmente, lungo un aspro pendio,
vedo che il nevaio è solcato da una scia marrone. Tutto contento
mi incammino in quella direzione, ma ben presto ho un'amara sorpresa:
non è una traccia umana, ma solo della ghiaia che è franata lungo
il canalone. Do un'occhiata in su e stimo di poter comunque risalire
per di là. All'inizio riesco, in qualche modo, ad andare avanti,
ma più la pendenza aumenta, più mi accorgo che fare anche solo pochi
passi è faticosissimo, oltre che pericoloso. In più, a un certo
punto mi si stacca il casco che avevo legato (evidentemente male)
dietro lo zaino, e mi rotola trenta o quaranta metri in basso. Scendo
giù per recuperarlo; dopodiché, non interpretando con correttezza
l'avvisaglia che il destino mi aveva inviato, risalgo nuovamente
il nevaio. La stanchezza è aumentata in maniera esponenziale: a
causa della poca presa degli scarponi, a ogni metro guadagnato lungo
i sassolini del nevaio ne corrisponde mezzo all'indietro. Le gambe
si fanno dure e ho il fiatone; la pendenza diventa sempre più impossibile.
Valutando che quella ghiaia sopra la neve mi fa una sorta di "effetto
sfere", provo a vedere se direttamente sul manto bianco procedo
meglio. Ma non è così: la neve è ghiacciata, data la bassa temperatura,
e a malapena riesco a stare in piedi. Mi convinco: "Senza ramponi
e piccozza andare avanti sarebbe folle. Meglio tornare indietro".
Ma proprio mentre mi appresto a fare dietrofront su me stesso, perdo
l'equilibrio. Scivolo solo per un metro o due, ma quel misto di
ghiaia e di neve molto dura finisce per comportarsi come la carta
vetrata, cosicché, quando mi rialzo, non mi ci vuole molto per accorgermi
che l'avambraccio sinistro è pieno di abrasioni, e in particolare
la zona del polso sanguina parecchio, dato che manca un brandello
di carne. Per fortuna là intorno non c'è davvero penuria d'acqua:
prendo la neve, la comprimo e me la cospargo sulle ferite, anche
per prevenire possibili ematomi dovuti alla botta. Quanto al polso,
devo continuare a insalivarmelo per un bel po', ma alla fine il
sangue smette di uscire anche da lì. Superato l'inconveniente, ritorno
deluso sulla "terrazza", ormai certo che non mi resta che rientrare
alla base. Dopo tanta amarezza, ecco che la buona sorte invece si
ricorda di me: verso una forcelletta vedo che la neve è scalinata!
Mentre procedevo nella direzione opposta non m'ero accorto di quelle
orme perché la particolare inclinazione della luce del sole me le
aveva rese invisibili, ma ora, tornando indietro, sono piuttosto
chiare. Rincuorato, rimonto dunque quel pendio che si rivela molto
più accessibile del precedente, giacché, a un certo punto, la traccia
gira dietro a un masso innevato che mi copriva la vista dell'itinerario,
proseguendo poi su terreno sempre più facile. Le tribolazioni finiscono,
e sono alla Forcella dai Ciamorces, sull'altopiano delle Mesules!
Mi si spalanca all'improvviso un panorama mozzafiato: di fronte
a me il resto del Sella, col Piz Boè e il Sass Pordoi; dietro, la
poderosa e isolata mole del gruppo del Sassolungo. D'un colpo svaniscono
la stanchezza e il dolore delle ferite... E' gia mezzogiorno, ma
decido di non mangiare e proseguire tenendomi alto sulla cresta,
toccando via via le varie elevazioni del Piz Rotic, Piz Beguz, Piz
Miara, Piz Saliera, Piz Gralba, Piz Revis e Piz Selva, tutte superiori
ai 2900 metri. Questa zona del Sella è assai poco frequentata, mancando
(fortunatamente!) impianti di risalita, e per lungo tempo procedo
avvolto nel più totale silenzio. Solo in vetta al Piz Miara trovo
una comitiva di emiliani giovani e chiassosi, col consueto, disturbante
contorno di cellulari con suonerie a pieno volume: tutto ciò davvero
non si addice allo stare in montagna, un luogo per me sacro dove
entrare in punta di piedi.
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