VII: Pian dei Fiacconi - Ghiacciaio della Marmolada - Punta Penia e ritorno
(a piedi)

Eccoci al clou della mia estate dolomitica. Avevo il chiodo fisso dell'ascensione della Marmolada fin da quando, ancora bambino, mio padre (per un certo periodo alpinista fra i più forti, oltre che fondatore della Scuola di Roccia "Tita Piaz" presso il CAI di Firenze) mi aveva già trasmesso l'amore per la montagna, ma la sua malattia e la prematura scomparsa hanno fatto sì che il sogno rimanesse  nel cassetto. Tuttavia alla Marmolada non avevo mai cessato di pensare, fino a che, lo scorso inverno, il desiderio dentro di me si è fatto imperioso ed insopprimibile. Per diversi mesi ho fantasticato su come realizzare il progetto, dato che fra i miei conoscenti non c'era nessuno in grado di condurmi su di un territorio così insidioso, fino a che mi sono risolto di prendere una Guida Alpina, la qual cosa è sempre consigliabile quando si voglia affrontare in sicurezza una gita o un'arrampicata con oggettivi pericoli.
La ricerca della "persona giusta" è avvenuta tramite mia madre, che in passato ha arrampicato a ben altri livelli rispetto a me (lei e mio padre si sono conosciuti scalando!), ma che ora ha... appeso gli scarponi al chiodo. "Voglio per te una persona capace ed esperta, perché in Marmolada si muore!": questo il suo convincimento, in effetti giusto. Non sono tanto le difficoltà tecniche a preoccupare, quanto la severità del luogo: crepacci in primis, ma anche la grande mutevolezza meteorologica; non bisogna infatti dimenticare che, con i suoi 3342 metri, la Marmolada è la più alta vetta dolomitica. Chieste informazioni ai compagni di cordata di una volta, a mia mamma vengono consigliati alcuni nomi. Il primo della lista è Vittorio Bonelli, che contatta telefonicamente. L'indomani facciamo conoscenza di persona. Per prima cosa lui mi squadra da testa a piedi, poi mi fa: "Per essere atletico sei atletico... ma quali sono le tue esperienze di montagna?". E così parlo di me e della mia ormai lunga attività escursionistica, non tacendo però che in fatto di roccia il mio curriculum si limita alle ferrate circostanti, con l'aggiunta di poche arrampicate "vere", mentre di ghiacciai non so assolutamente nulla. Poi mi pone un suo dubbio: "Sei tu che vuoi salire sulla Marmolada o è tua madre che ti ci vuole mandare?...". L'obiezione è comprensibile, dal momento che, come detto, il primo contatto telefonico non è partito da me; cosicché mi affretto a spiegare: "Le informazioni le ha chieste mia mamma perché è lei che conosce gli alpinisti in zona, e voleva essere sicura di scegliere il meglio; in realtà la mia motivazione personale è fortissima, si tratta di un qualcosa che voglio realizzare assolutamente!". La domanda successiva riguarda la mia acclimatazione, vista la notevole quota che bisogna raggiungere. Tranquillizzo la Guida, della quale apprezzo fin d'ora lo scrupolo e la professionalità: sono già oltre due settimane che mi trovo a Moena, e ho sei gite di un giorno intero alle spalle. Detto questo, Bonelli mi propone di salire per la ferrata della cresta ovest e di scendere per il ghiacciaio, anche per rendere più varia la gita; ma io, consapevole dell'esposizione della suddetta ferrata, nonché dei miei limiti personali, preferisco rimanere fedele al progetto di partenza: andata e ritorno per la via normale, che comunque prevede, come lo stesso Bonelli mi sottolinea, alcuni tiri di corda su roccia di secondo grado. Fissiamo la data fatidica: due giorni dopo, ovvero il 14 agosto.
Trascorro l'indomani in preda ad una febbrile eccitazione. Recupero il mio casco da arrampicata, quindi provvedo a mettere il grasso sugli scarponi. La sera mi ritrovo con Vittorio (lo chiamo così perché molto gentilmente mi permette subito di dargli del tu) affinché lui possa scegliermi i ramponi della giusta misura. Non è ancora tempo di cenare, e dunque decido di smorzare l'agitazione andando a correre per una mezz'oretta. Mi pare di avere le ali ai piedi! Dopo mangiato preparo lo zaino con tutto l'occorrente, infine vado a dormire. O, meglio, a tentare di dormire: una notte insonne era il minimo e prevedibile pedaggio che dovevo pagare.
E finalmente è il grande giorno! Verso le sei e tre quarti decido che sono stufo di rimanere a letto e mi alzo, lavandomi e vestendomi con calma. Non rinuncio certo al caffelatte con biscotti, quindi mi reco all'appuntamento in piazza con la Guida. Sono le sette e mezzo quando insieme saliamo sulla mia macchina con destinazione il Passo Fedaia, ai piedi della Marmolada, appunto. La giornata è incredibilmente bella, di gran lunga la migliore di tutta l'estate: il cielo è terso come uno specchio, l'aria è immobile e non c'è umidità. Capisco fin d'ora che sono molto fortunato, e che il panorama che m'aspetta in cima sarà fantastico! La temperatura è davvero bassa, ma questo non mi urta affatto, anzi: per uno come me, che suda sempre moltissimo, è addirittura un vantaggio. Arriviamo al Fedaia circa alle otto, ovvero l'ora di apertura dell'impianto che porta ai 2600 metri del Pian dei Fiacconi. Si tratta di una bidonvia forse obsoleta, ma in una giornata del genere non mi disturba affatto trascorrere una ventina di minuti ad ammirare le zone circostanti: Vittorio, fra l'altro, è un ottimo Cicerone, e mentre saliamo insieme dentro il "bidone" mi ragguaglia opportunamente su tutto quello che vedo. Il freddo è molto intenso, ed infatti Vittorio è imbacuccato in giacca a vento, berretto di lana e guanti; invece per me, che già non sto nella pelle dalla contentezza, è sufficiente la tuta da ginnastica sopra la maglietta! Scendiamo dalla bidonvia. La Guida mi indica il percorso che ci attende: il superamento del ghiacciaio davanti a noi, poi le rocce sulla destra ed infine l'ultimo crinale ghiacciato fino a Punta Penia.

Alzo gli occhi sopra la vetta e mi sembra di sognare: il cielo è di un blu profondissimo, quasi nero! Solo in alta montagna si possono ammirare spettacoli simili. Il primo tratto è un sentiero roccioso poco o nulla pendente che non crea problemi. Poi comincia il ghiacciaio: Vittorio mi mette addosso l'imbragatura a cui lega la corda, facendomi capire come si fanno i nodi; quindi mi porge i ramponi che aveva preparato. Anche qui mi spiega con calma e pazienza quali sono le precauzioni da adottare quando si cammina con tali attrezzi (piedi divaricati e grande cautela per non inciampare). E' la volta della piccozza, e i consigli sul suo utilizzo mi sono assolutamente preziosi, data la mia inesperienza in materia. Cominciamo a muoverci e i primi passi mi sembrano goffi ed impacciati con quegli aggeggi puntuti sotto i piedi, ma ben presto mi rendo conto della loro insostituibile necessità, dato che permettono un'eccezionale stabilità anche in condizioni critiche, purché si sappia usarli ("Appoggia bene tutto quanto il piede!", mi ripeterà più volte Vittorio in discesa). Procediamo senza correre ma pure con grande continuità, senza pause inutili: nell'arco della giornata non saremo mai sorpassati da nessuno, e al contrario lasceremo indietro più di una cordata partita prima di noi. La Guida talvolta si sincera sulle mie condizioni fisiche, ma io - che ora ho solo la maglietta - mi sento un leone, e non avverto minimamente la fatica. Arriviamo nella zona alta del ghiacciaio e cominciano i crepacci. Una mezza dozzina in tutto, ma solo un paio destano le preoccupazioni di Vittorio, che mi spiega la strategia da adottare in questi casi: passare sopra il "ponte" uno alla volta, cosicché, se il lembo ghiacciato dovesse malauguratamente cedere, il compagno rimasto sopra può recuperare l'altro. Ma va tutto bene, anche perché, come detto, fa molto freddo e dunque neve e ghiaccio sono stabili. Giungiamo alle rocce e indossiamo i caschi. La situazione è abbastanza anomala, perché i giorni precedenti sono stati di grande maltempo e dunque su tutta la zona si sono depositati 30-40 centimetri di neve fresca, il che rende più fotogenico il ghiacciaio, ma l'andare in roccia si complica un po'. Vittorio mi confessa che è stato un bene aver deciso di non fare la ferrata, perché il vetrato che avremmo sicuramente trovato sugli infissi metallici poteva essere molto pericoloso. L'innevamento è tale che Vittorio decide che dobbiamo tenere i ramponi anche per arrampicare, dato che la percentuale di roccia viva è trascurabile.

Seguendo il suo percorso e i suoi consigli, con la tranquillità ulteriore del sapermi legato a lui, supero senza grossi problemi la parete.

E siamo alla dorsale superiore, la cosiddetta "schéna de mul". Ormai il più è fatto e non manca molto alla Punta Penia. C'è uno strappo un po' ripido ("qualche decennio fa lo era di più, prima che il ghiacciaio si ritirasse", osserva giustamente la mia Guida), ma la gioia della vetta ormai vicina mi toglie quel poco di senso di fatica che l'allenamento e l'adrenalina in corpo ha fatto sin lì tacere...

Vittorio cede a me l'onore di fare da "primo" per gli ultimi passi, finché tocco la croce posta sulla sommità: siamo in cima alla "Regina delle Dolomiti", ai 3342 metri di Punta Penia! Ricevo i sinceri complimenti della Guida - che mi fanno molto piacere - e immortaliamo con una foto la nostra stretta di mano che documenta la riuscita dell'ascensione. Mi guardo tutto intorno: la visione che mi si offre a 360 gradi è di una bellezza incomparabile! Grazie al perfetto sereno si riescono a scorgere montagne lontanissime di cui solo Vittorio sa il nome, tant'è che anche altri alpinisti gli si avvicinano per ricevere informazioni.

Mi concentro sulle vette più vicine, quelle che mi sono maggiormente familiari: che effetto mi fa vederle tutte quante dall'alto! Perfino il Sassolungo, coi suoi 3181 metri, mi sembra per una volta piccolo, là in basso... Lo scenario è assolutamente strepitoso, tanto che un groppo di commozione mi stringe la gola. Guardo l'orologio: sono le dieci e quarantacinque, dunque dal Pian dei Fiacconi abbiamo impiegato meno di due ore e mezzo. Ci rechiamo verso la capanna pochi metri più in basso e ci cambiamo gli indumenti. Vorremmo sederci sulle panche all'esterno, ma sono ancora piene della neve caduta nei giorni precedenti; allora Vittorio (a cui l'energia davvero non manca) provvede a liberarle con un'asse di legno. Finalmente consumiamo il nostro pranzo al sacco, avvolti dall'aria frizzante e dalla luce abbacinante. Poi entriamo, e per una volta mi dimentico di essere astemio associandomi alla mia Guida nell'ordinare un corroborante tè al rhum. Dopo la rituale firma sul libro di vetta e l'acquisto di cartoline col timbro del rifugio, torniamo fuori. Sono le undici e mezzo, e Vittorio mi dice: "E' meglio scendere. Sta venendo caldo e ci sono quei due crepacci là sotto che non mi piacciono molto". La valutazione è del tutto assennata; pochi minuti ancora per scattare altre foto, dopodiché siamo già in marcia.
In discesa l'inesperto ha la precedenza, ma su di me sta sempre l'occhio scrupoloso della Guida, che osserva il mio procedere non lesinandomi le indicazioni del caso: "Cammina come i vecchietti di Moena: ginocchia leggermente piegate, punte dei piedi divaricate e passi piccoli. Ricordati sempre che hai i ramponi, dunque occhio a non pestare la corda". In breve giungiamo alla fine della "schéna de mul", dove inizia il tratto roccioso. Incrociamo alcuni alpinisti che stanno salendo e Vittorio, a ragione, li rimprovera bonariamente perché è tardi, e a quell'ora in Marmolada si deve già essere sulla via del ritorno. Una giovane cordata si è poi inventata una maniera bizzarra e pericolosissima per farsi sicurezza, fidandosi di una sottile asse di legno infilata nella neve, attorno alla quale hanno fatto passare la corda. Qui il rimprovero di Vittorio è più deciso, e ne ha ben donde: con la punta dello scarpone io stesso verifico che quell'asse oscilla paurosamente, e che anzi sta su per miracolo! Indossiamo i caschi. La condizione della neve è mutata in modo profondo rispetto a poche ore prima, e il sole sta facendo rapidamente sciogliere il manto superficiale. La Guida, osservata ora la predominanza della roccia rispetto alla neve, opta con criterio per la discesa senza ramponi. E qui emergono, come prevedevo, i miei limiti tecnici: in montagna l'andare in giù è sempre più difficile che l'andare in su; oltretutto non m'era mai capitato di affrontare una situazione del genere, cioè un misto di roccia, neve ormai molle e rivoli di acqua a volontà. Un secondo grado in quelle condizioni sarebbe stato per me tabù, ma, grazie al mio Angelo (anzi, Vittorio...) custode, tutto diventa d'incanto possibile: mi viene detto dove passare e dove fare le soste, assicurandomi col moschettone ai chiodi fissi posti lungo la via. E' tuttavia palese un po' d'imbarazzo da parte mia, a cui la Guida supplisce facendomi energicamente sicurezza con la corda. In effetti non gradisco tutta quella neve sciolta, sopra la quale mi sembra sempre di pattinare; anche le poche piazzole di sosta lungo la paretina sono invase da una poltiglia scivolosa. Rimango concentrato e do fondo ad ogni mia risorsa fisica e mentale, mentre Vittorio, dietro di me, scende con ben altra sicurezza e velocità. Sudo come una fontana, e spessissimo devo fermarmi per pulire gli occhiali: "E' più per la tensione che per il caldo o la fatica", osserva a ragione la mia Guida. Ma alla fine ce la faccio, e siamo di nuovo sul ghiacciaio. Rimettiamo i ramponi, poi, una volta lontani dalle rocce, ci togliamo i caschi. Piccola pausa per bere e riposare, poi arriviamo ai due temuti crepacci: uno è ancora stabile e lo attraversiamo, sempre con le dovute cautele; l'altro, invece, preoccupa Vittorio, la cui grande esperienza nel valutare colore e ampiezza delle "cornici" fa sì che egli in questo caso giudichi pericoloso il passaggio sopra di esso. Non rimane che saltare: presa la giusta misura, prima io e poi lui balziamo incolumi dalla parte opposta.

Il resto è normale prassi fino alla zona rocciosa sopra il Pian dei Fiacconi, dove ci togliamo definitivamente i ramponi e ci sleghiamo. Facciamo un'altra graditissima pausa per rifocillarci, mentre io, ancora incredulo dello spettacolo strepitoso che si è offerto quest'oggi ai miei occhi, guardo con grande soddisfazione la Punta Penia che finalmente ho raggiunto all'età di 39 anni.
Raggiungiamo la bidonvia per tornare poi al Fedaia, e qui succede l'unico intoppo della giornata, fortunatamente finito bene: poco dopo essere saliti dentro al "bidone", togliendosi lo zaino, a Vittorio cade la piccozza nel vuoto. Ovviamente ci tiene a recuperarla, anche perché - come mi spiega - si tratta di un prezioso ricordo personale. Arrivati alla base dell'impianto, Vittorio segnala l'accaduto, cosicché gli addetti della stazione superiore possano recuperargli l'oggetto. Nel contempo, lui torna su. Dopo una quarantina di minuti ridiscende, purtroppo a mani vuote. Ma ben presto la piccozza ritorna al suo proprietario: se l'era presa il furbone di turno, facilmente individuato, però, dal fatto che un vestito da motociclista mal si concilia con un attrezzo così alpinistico... A parte questo, tutto bene: al Fedaia prendiamo un gelatino e poi ritorniamo a Moena in macchina. Per tutta la vita il ricordo di questa splendida giornata rimarrà dentro di me caro ed indelebile!

[Dolomiti 2002]