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VII: Rifugio Paolina - Passo Vaiolon - Roda di Vael - Forcella delle Rode - Cresta del Masaré - Rifugio Roda di Vael - Rifugio Paolina (a piedi)
Aereo, lungo
e impegnativo, l'itinerario che combina le due ferrate della
Roda di Vael e della cresta del Masaré costituisce una bellissima
gita che avevo in programma già nel 2004, ma, proprio quando
quell'estate ritenevo di aver raggiunto un allenamento e una
dimestichezza con la roccia sufficienti, ecco che la lussazione
al gomito mi aveva imposto di rimandare il tutto a tempi migliori.
Per la mia settima uscita di questo 2005 decido che è arrivato
il momento buono: le condizioni atmosferiche sono perfettamente
stabili ormai da parecchi giorni (tale requisito non è da sottovalutare),
in più il fiato e la forma fisica non mi mancano. La prova che
mi aspetta è comunque temibile, e proprio per essere sicuro
di conservare la maggior energia possibile e la conseguente
tranquillità, per raggiungere il Rifugio Paolina opto di servirmi
della seggiovia che parte poco sotto il Passo Costalunga. Nella
luce radente del mattino, la poderosa mole della catena di Vael
(sottogruppo del Catinaccio) sembra venirmi incontro veloce
man mano che l'impianto di risalita mi porta in alto. "Sbarco"
intorno alle otto e mezzo e, proprio mentre comincio a camminare,
due signori poco lontani da me chiacchierano con una cadenza
a me familiare. Domanda di prammatica: "Fiorentini?...". "Sì,
dell'Isolotto!". E' incredibile quanto il mondo sia piccolo...
Loro stanno però avviandosi nella direzione opposta alla mia,
per cui mi congedo con un rapido saluto. La prima parte dell'itinerario
si svolge lungo quel panoramicissimo sentiero che porta verso
il Rifugio Coronelle: fra il frastagliato Latemar da una parte
e l'incredibile "parete rossa" della Roda di Vael dall'altra,
il belvedere è assicurato! Ben presto, però, trovo il bivio,
e io devo girare a destra, verso il Passo Vaiolon. La salita
diventa subito ripida e faticosa.
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La catena di Vael dalla seggiovia nella radente luce del mattino
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La conca di Carezza e il Latemar dal Vaiolon
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Raggiungo due
giovani, come me evidentemente diretti all'attacco della ferrata,
i quali attirano la mia attenzione: parlano in italiano (una rarità
da queste parti, come preciserò dopo) e indossano calzature estremamente
leggere. Troppo, secondo il mio modesto parere: lui ha scarponcelli
con la caviglia bassa, lei addirittura scarpe da ginnastica, e per
giunta poco scolpite! Azzardo un commento: "O queste sono scarpe
molto buone, o voi siete molto bravi...". Lui si gira, e immediatamente
mi rendo conto di aver fatto una gaffe: sul suo maglione risalta
lo stemma "guida alpina". Certamente infastidito dall'essersi sentito
'sminuito' di fronte a una cliente, con aria di sufficienza mi fa
vedere la suola, dicendo che va più che bene. Vista la situazione
non insisto, anche se dentro di me continuo ad avere molti dubbi.
Riprendo l'erta, e spesso mi capita di alzare lo sguardo verso la
ciclopica "parete rossa", cui segue la lunga cresta del Masaré.
Al cospetto di simili magnificenze, mi sento un esserino decisamente
piccolo e insignificante. A causa dell'orario, poi, tutta la zona
è ancora in ombra e vagamente sinistra, e questo aumenta in me la
sensazione di inadeguatezza: "Dunque io dovrei arrivare lassù e
poi percorrere tutto quel filo sottile? Dio, non ce la farò mai!",
penso più di una volta. Ma intanto sono quasi al Passo Vaiolon.
L'ultimo strappo è un po' più scosceso e roccioso, e alcuni metri,
benché elementari, sono attrezzati per una maggiore sicurezza. Arrivo
al passo e... miracolo! Il sole rischiara e riscalda tutto, a cominciare
dal mio animo. Fra alcune capre di montagna mi concedo un attimo
di pausa, e mentre indosso casco, guanti e cordino con moschettoni,
ne approfitto per ammirare le tormentate guglie della Sforcella.
Poi affronto il primo tratto ferrato, quello che mi condurrà in
vetta alla Roda di Vael. La cresta di questo versante nord-ovest
è tecnicamente piuttosto semplice; richiede comunque una doverosa
vigilanza perché c'è una certa esposizione. Avevo già fatto la medesima
cresta nel 1982, però in discesa e soprattutto senza l'ausilio degli
infissi metallici, perché quell'anno la ferrata ancora non c'era!
Rammento che io, mia sorella, mio zio e mia cugina facemmo tutto
quel tratto praticamente a quattro zampe e col culo, e meno male
che alcuni provvidenziali nuvoloni ci impedivano di vedere dalle
parti! Oggi la situazione è ben diversa, e il pur sottile filo roccioso
non mi crea alcun problema. Dai 2806 metri della vetta (la quota
maggiore della giornata) la vista è meravigliosa: oltre alla vicina
valle del Vajolet, comprende anche il Sassolungo, il Sella, la Marmolada
e le Pale di San Martino. Praticamente... tutto! Firmo il libro
di vetta. Con me c'è una coppia di giovani francesi: lui, molto
gentilmente, prima ancora che glielo chieda si offre per scattarmi
delle foto accanto alla croce.
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Magnifico panorama in vetta alla Roda di Vael
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Ferrata della Roda di Vael: la mia mano guantata sulla cresta nord-ovest
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La Sforcella e la valle del Vajolet dalla cima della Roda di Vael
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Dopo un po'
arrivano in cima anche la guida alpina di poc'anzi con la relativa
cliente. Gli chiedo com'è tecnicamente la cresta del Masaré, dato
che, dai libri in mio possesso, le difficoltà appaiono maggiori
rispetto alla Roda di Vael. Costui mi dice che l'itinerario non
è inabbordabile; poi, verosimilmente per 'vendicarsi' dello smacco
subìto prima, si affretta a soggiungere che "il mio equipaggiamento
non è idoneo". A suo dire, è indispensabile l'imbragatura completa
da scalata, il dissipatore, eccetera. Gli faccio notare che non
sto facendo una direttissima di sesto grado bensì una ferrata, dove
la caduta teorica è di un metro o due; inoltre, per scegliere il
cordino (tipo, diametro e lunghezza) e i moschettoni (tipo e quantità)
avevo seguito alla lettera le indicazioni date da Reinhold Messner
in un libro sulle ferrate, e che in oltre vent'anni di percorsi
attrezzati m'ero sempre trovato bene. Il mio interlocutore fa un
risolino ironico, e con una spallucciata se la cava: "Se è per questo,
una volta si andava in montagna con le corde di canapa...". Il dialogo
si fa per me poco interessante, e mi appare evidente che lui voglia
parlare per partito preso. In tutti i campi esistono grandi e piccoli
uomini: Vittorio Bonelli, che mi ha accompagnato sulla Marmolada,
è una vera "Guida Alpina" a tutti gli effetti; quest'altro, invece,
solo una "guida alpina", dato che non dà importanza a un elemento
basilare come le scarpe della sua cliente. E lo stesso Bonelli,
quando gli avevo chiesto informazioni su alcune ferrate, mi aveva
detto: "Che attrezzatura hai? Casco, cordino e moschettoni? Bene,
allora sei a posto!". Un'occhiata all'orologio: sono le 10,30 ed
è tempo di proseguire. La discesa sul fianco nord-est si svolge
dapprima su normale sentiero, lungo un pendio erboso neanche troppo
inclinato. Più in basso s'incontra la roccia e una maggiore verticalità,
ma si è sempre nei limiti del pienamente praticabile. Proseguendo
la discesa verso la Forcella delle Rode, ben presto si nota, sul
versante opposto, l'impressionante parete che porta alla cresta
di congiunzione fra Torre Finestra e Roda del Diavolo: è il punto
più difficile di tutto il percorso, e io ho opportunamente fatto
in modo di doverlo affrontare in salita. Mi trovo poco sopra la
Forcella delle Rode, e su quella parete sono impegnati i due francesi
che avevo conosciuto prima. Lui ha già affrontato il passaggio-chiave,
e sta dando indicazioni alla sua ragazza che si trova in spaccata
su un diedro. L'effetto è un po' inquietante. Urlo: "Is it OK?".
Lui alza il pollice facendomi segno che va tutto bene. Poco sopra
di me, un giovane di lingua tedesca si offre per farmi una spettacolare
foto in un punto esposto. Ovviamente accetto con entusiasmo e lo
ringrazio. Ma, mentre lui si sta accovacciando, mi molla in testa
un sasso grande come una palla da tennis! Provenendo da una verticale
di alcuni metri, poteva farmi un bel buco nel cranio, ma per fortuna
avevo il casco... Sento un violento "toc!", ma tutto finisce lì.
Perlomeno la foto valeva la pena: è quella che trovate nella pagina
generale di questo 2005. Pochi metri e sono giù, alla Forcella delle
Rode. Ancora un'occhiata alla difficile parete che mi aspetta: i
metri di arrampicata effettiva non sono molti, ma la roccia è liscia,
la verticalità è assoluta e l'esposizione è massima: non devo sbagliare
con l'autoassicurazione, e l'impiego di tutti e due i moschettoni
è ovviamente obbligatorio. Mi lancio senza indugi, e con notevole
sforzo di braccia riesco a tirarmi su. Ecco il diedro, ovvero il
punto topico: gli appoggi naturali per i piedi mancherebbero del
tutto, cosicché sono state inserite delle staffe indispensabili
per poter andare avanti. Queste sono però piuttosto distanziate,
soprattutto una: ecco il perché di dover effettuare la spaccata.
Con calma, tenendomi saldamente alla fune metallica, allargo le
gambe e studio bene il passo. Il piede sinistro trova bene la staffa,
ma il riavvicinamento del destro non è così banale: per un attimo
sono costretto a stare con tutti e due su una sola staffa, prima
di spostarmi rapidamente su quella successiva. Ci sono ancora alcuni
metri poveri di appigli, lungo i quali le braccia fatalmente lavorano
oltre misura sulla fune metallica. Ho un po' di fiatone per il cospicuo
sforzo, ma alla fine raggiungo la successiva cresta, dove posso
riposarmi un attimo. Alla mia sinistra ho il Croz di Santa Giuliana,
altrimenti detto Torre Finestra a causa del caratteristico buco
che lo attraversa da parte a parte: in tale feritoia è stata collocata
una croce.
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L'impegnativo diedro della parete sopra la Forcella delle Rode
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La Torre Finestra con la caratteristica apertura che la trapassa da una parte all'altra
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Alla mia destra
c'è invece la Roda del Diavolo, montagna a cui sono particolarmente
affezionato in quanto si tratta della prima vetta della mia vita:
era il 1969 e avevo sei anni e mezzo. Con me c'erano mio padre e
mio nonno, che da tempo sono passati a miglior vita. Per l'esattezza
dal 1983: morirono a undici giorni di distanza uno dall'altro...
Mi prende un pizzico di nostalgia, ma preferisco subito concentrarmi
sul prosieguo dell'itinerario. C'è un breve trasferimento in quota
su sentiero. A un certo punto, scorgo un gruppetto di giovani seduti
a riposare: hanno evidentemente appena ultimato la seconda ferrata,
quella del Masaré, avendola affrontata nella direzione opposta alla
mia. Mi fermo per un breve scambio di battute sulle difficoltà del
percorso. Sono svizzeri, ma parlano un inglese perfettamente comprensibile
anche per me. Simpatici e alla mano, i ragazzi ridono alle mie battute
circa le note insipienze linguistiche di noialtri italiani, me compreso.
Comunque, vi posso assicurare che mai quanto in alta montagna ho
modo di allenare il mio debole inglese: laddove gli itinerari si
fanno un po' più alpinistici, gli italiani scompaiono quasi del
tutto. Quest'oggi, tanto per dire, i miei connazionali sono quantificabili
sì e no nel 10% del totale... Pigrizia? Paura? Cosa tiene gli
italioti (soprattutto quelli di sesso femminile...) lontani dalle
alte crode? Vado avanti e ritrovo le funi metalliche: è l'attacco
della ferrata del Masaré. Sto per posizionare i moschettoni, quando
vedo due facce note. "O te?...", mi fanno, un po' stupiti. "O voi?...",
rispondo io. Sono i due fiorentini dell'Isolotto; anche loro hanno
terminato la via attrezzata nel senso opposto. Saluto, quindi affronto
un primo lungo salto roccioso che mi deve portare in quota. La roccia
è ripida ma percorribile, e gli infissi metallici sono sempre perfetti.
Nondimeno la fatica comincia a farsi sentire, e mi rendo conto che
fra non molto sarà prudente fermarmi per mangiare. Arrivato su una
spalla della Settima Torre, devo scendere a un intaglio per poi
risalire. Le funi metalliche guidano poi a pochi metri dalla vetta
della Sesta Torre. E' già l'una e mi accorgo di essere in riserva
di energie: devo assolutamente rifocillarmi. Un ultimo sforzo e
mi porto in cima, dove trovo diversi altri alpinisti. Tutte facce
mai viste, per cui capisco di essere probabilmente l'unico ad affrontare
la traversata completa costituita dalle due ferrate, e chi fa quella
del Masaré la attacca appunto da sud, dove io invece la terminerò.
Finalmente mi siedo e tiro fuori affettati e formaggi. Molti gracchi
alpini stazionano fissi, aspettando fiduciosi di ricevere qualcosa.
Hanno una confidenza incredibile con tutti noi: evidentemente chi
arriva quassù è un vero amante della natura e non si sognerebbe
mai di dar loro fastidio. Si avvicinano a pochi centimetri, e uno
di essi si piazza con grande tranquillità su un mio scarpone! Volentieri
contraccambio con del cibo quest'atto di simpatia, e anche psicologicamente
mi rilasso dall'impegno alpinistico.
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Impressionante colpo d'occhio verso il basso salendo la Settima Torre del Masaré
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Vetta della Sesta Torre: un gracco alpino staziona tranquillamente su un mio scarpone!
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E' il momento
delle foto di rito: come mi sembra piccola e lontana l'ampia zona
del Rifugio Roda di Vael, che raggiungerò al termine della ferrata!
Mi rimetto in marcia. Inizia qui la parte più esposta e impressionante,
una fantastica cavalcata in quota mai banale, sempre varia e interessante:
mi trovo ora su un lato, ora sull'altro del filo di cresta; scendo
per ardite crode; risalgo per erti camini o per anguste fessure.
L'attenzione si mantiene costantemente alta e l'uso di entrambi
i moschettoni è tassativo, perché pare sempre di essere sospesi
su un elicottero rispetto al fondovalle! Il percorso è "moderno
e atletico" (cito quanto letto su un libro); in ogni caso, però,
l'ottima concezione e posa in opera degli infissi dona tranquillità.
Un problemino, almeno per me, è semmai costituito dal fatto che
trovo un discreto "traffico" in senso contrario, per i motivi già
esposti. Nei punti più difficili preferisco aspettare che le "code"
si smaltiscano per intero, però ciò talvolta implica il rimaner
fermo per diversi minuti, col rischio di freddare i muscoli... La
verifica pratica mi dà comunque ragione circa la direzione da me
scelta, in quanto devo affrontare tutti i passaggi più impegnativi
in salita, e non il contrario. Supero in saliscendi tutte le Torri
del Masaré, a pochi metri dalla loro sommità, senza impacci particolari.
Proprio alla fine ho un attimo di difficoltà: c'è un camino strapiombante,
l'unico da fare in discesa. Il lato sinistro è praticamente liscio
e non vi sono staffe per i piedi. E' necessaria la tecnica di opposizione,
ma il lato destro non è così vicino, per cui non riesco a 'puntellarmi'
in maniera adeguata. In salita sarebbe diverso, perché a forza di
braccia mi tirerei su abbastanza agevolmente, ma in giù, a causa
dello strapiombo, non vedo bene i passi da fare. Inoltre sono un
po' stanco e fa un gran caldo, tanto che sudo abbondantemente. Mi
fermo un attimo per recuperare lucidità, e faccio passare un giovane
che sta andando nel mio stesso senso. E' un tedesco che però parla
bene l'italiano, e volentieri mi fa vedere dove mettere i piedi
scendendo. C'è pero un piccolo particolare: lui è un marcantonio
di almeno un metro e novanta, e l'opposizione nel camino gli riesce
facile grazie alle gambe lunghe! Quando riprovo io, malgrado la
sua assistenza, noto che non mi è proprio possibile replicare i
suoi passi; dulcis in fundo, pur avendo la bandana sotto il casco,
il sudore mi cola negli occhi bruciando assai fastidiosamente! Decido
allora di puntare i piedi sul solo lato sinistro (più liscio ma
meno strapiombante) e, calandomi pian piano con le braccia, discendo
il punto cruciale. Nell'effettuare la manovra il corpo si mette
giocoforza di traverso e lo zaino struscia un po' sul lato destro,
ma nulla di grave.
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Una ripida fessura. La si affronta in salita nel mio senso di marcia
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Lo strapiombante camino conclusivo che mi ha creato qualche problema
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Altra sosta:
"Uffa, ma quanto mancherà alla fine?", penso fra me e me con un
briciolo di insofferenza. Lo chiedo all'ennesimo tedesco in direzione
contraria: "One minute!", è la rassicurante risposta. Infatti giro
una rupe e... sorpresa, il panorama è completamente diverso! La
ferrata è conclusa, e per scendere a valle c'è solo un normale sentiero.
In una quarantina di minuti, andando tranquillo, sono al Rifugio
Roda di Vael. All'esterno un cartello spiega il tracciato della
ferrata, dandone la seguente definizione globale, che sottoscrivo
in pieno: "Percorso di media difficoltà ma con passaggi difficili
o molto difficili. Da affrontare solo con condizioni meteo assolutamente
stabili". Compro due cartoline e vi appongo il timbro, mangio un
po' di cioccolata e mi rilasso: un grande senso di soddisfazione
mi pervade. Oltre alle alte cime dove mi trovavo poco fa, ammiro
i Mugoni, le Cigolade e i Dirupi di Larsec. Per rientrare al Rifugio
Paolina, dove mi aspetta la seggiovia, utilizzo il comodo e famoso
"Sentiero Christomannos", che circa a metà presenta una caratteristica,
grande aquila bronzea.
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La cresta del Masaré dal Rifugio Roda di Vael
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L'aquila di bronzo lungo il Sentiero Christomannos
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Alle cinque
giungo al Paolina: però, quanto ho camminato anche oggi! La "parete
rossa" della Roda di Vael e la cresta del Masaré sono adesso inondate
di sole e mi appaiono ben più rassicuranti rispetto al mattino,
forse anche per la consapevolezza di esser riuscito nella mia "impresa"...
Pure lo scendere in giù in seggiovia mi pare infine interessante,
per via dei colpi d'occhio sullo Schenon e sulla frana lungo cui si snoda il Labirinto, poi sulle Torri del Latemar e sui prati che
dominano la conca di Carezza.
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La splendida "parete rossa" della Roda di Vael dal Rifugio Paolina
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Lo Schenon e le Torri del Latemar scendendo con la seggiovia
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La gita è molto lunga e faticosa se si sceglie l'intera traversata, così come ho fatto io; diventa più abbordabile se si opta solo per una delle due ferrate. Va infatti precisato che esistono due altri punti di accesso (o di fuga, a seconda dei casi): uno alla Forcella delle Rode, l'altro alla cresta fra Torre Finestra e Roda del Diavolo, entrambi piuttosto vicini al Rifugio Roda di Vael. Si potrà così scegliere a piacere dove attaccare o dove smettere, escludendo ad esempio la difficile parete presso la Forcella delle Rode. Delle due ferrate, quella della Roda di Vael non crea problemi all'escursionista allenato e dotato di piede fermo; quella del Masaré è assai più impegnativa ed esposta, sicuramente da sconsigliare a chi soffre di vertigini, ancorché gli infissi, come detto, siano più che buoni.
[Dolomiti 2005]
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