Fin dal primo momento in cui concepii questa rubrica per Urlo, mi fu subito chiaro il proposito di occuparmi sì di progressive, ma senza rigidi e stupidi steccati, senza preclusioni prive di ragion d'essere verso generi differenti, in poche parole senza voler assurdamente contrapporre la "buona musica prog" alla "cattiva musica 'altra'", come talvolta avviene nelle fanzines del settore. No, progressive non è necessariamente sinonimo di qualità; Dio ci scampi e liberi da gruppi come Marillion, Pendragon & compagnia brutta, che dagli anni '80 ad oggi ci hanno solo propinato dischi plastificati e privi di anima. Tutto questo preambolo per significarvi che questa è forse la meno "ortodossa" delle puntate di Zarathustra; d'altronde è proprio ciò che stavolta mi sentivo di fare, a costo di attirarmi l'antipatia dei puristi.

Nel segno di una meravigliosa anticonvenzionalità sono, per intero, i prodotti usciti dall'area dei Franti, il seminale ed imprescindibile gruppo torinese che, lungo il decennio '77-'87, ha indelebilmente marcato l'underground italiano grazie alla lucida ed originale mescolanza di punk, folk, jazz ed avanguardia. Environs, Orsi Lucille, Howth Castle e Banda di Tirofisso sono infatti tappe imperdibili di un percorso tuttora in evoluzione, ma il progetto che potrebbe maggiormente attirare l'attenzione del prog-fan privo di paraocchi è forse quello degli ormai (purtroppo) disciolti Ishi, il cui Sotto la Pioggia (Blu Bus) è un autentico gioiellino di elaborata intelligenza. In varia misura coinvolto nelle suddette bands è STEFANO GIACCONE, personaggio dalla grande coerenza artistica e politica che conferma in pieno il suo carisma in Corpi Sparsi (On/Off), documentazione in studio dell'omonimo spettacolo teatrale - una sorta di recital a metà strada fra il jazz e la poesia pura - che Stefano ha per qualche tempo portato in giro nelle situazioni alternative di tutta Italia, accompagnato dal suo sax e dal pianoforte del fido CLAUDIO VILLIOT. Il mio sincero plauso va all'artista prima ancora che all'uomo ed all'amico; attendiamo ora il nuovo disco da solista.
Veramente encomiabile è l'iniziativa portata avanti dal quotidiano
Il Manifesto, che con cadenza regolare ci fa trovare in edicola dei CD di qualità al prezzo imposto di 12.000 lire, alla faccia di tutte le majors speculatrici che da anni tentano invano di convincerci che il dischetto ottico è un prodotto di lusso e quindi, come tale, non può costare meno di 35.000 lire. Il più appetibile, forse, per l'ascoltatore abituale di prog, è Vento del Deserto degli INDACO, gruppo in cui ritroviamo Rodolfo Maltese e Pierluigi Calderoni del Banco, ma "special guests" in questo disco sono pure Francesco Di Giacomo, Mauro Pagani, Toni Esposito ed Antonello Salis, tutti personaggi che, a maggior o minor titolo, parteciparono all'esaltante stagione del pop italiano degli anni '70. Il genere qui rilevabile è una commistione assai interessante fra atmosfere etniche (in particolar modo indiane e mediorientali) ed aperture sinfoniche, senza però mai scadere in quel kitsch che le ibridazioni fra rock e world music a volte producono: prova ne sia la cover della floydiana Set the Controls for the Heart of the Sun, resa con passione e personalità.

Il sassofonista sardo ENZO FAVATA ben esprime il forte sentimento di legame con la propria terra in Voyage en Sardaigne, dosata esternazione di jazz contaminato dall'affascinante musica tradizionale di quel luogo, ed infatti fra i molti collaboratori figurano i noti Tenores di Bitti. Il lavoro scorre naturale, senza forzature od astrusità; i diversi frangenti più meditativi saranno apprezzabili anche per chi si nutre abitualmente di new age.
Ci si sposta in Toscana con
Banditaliana di RICCARDO TESI, un autentico virtuoso dell'organetto diatonico che negli ultimi tempi è in cerca di stimoli nuovi, spaziando dal liscio (!) del precedente disco alle venature jazz di quest'opera. Il contesto, sempre riconoscibile, è quello del folk dell'Italia centrale, ma le percussioni di Ettore Bonafé e Paolo Casu, sofisticate e viscerali al tempo stesso, sanno donare inusitate sfaccettature.

Ritroviamo ancora Bonafé e Casu come artefici del progetto FUENTES, band in cui le percussioni addirittura assurgono al ruolo di protagoniste assolute, venendo suonate da tre quarti della formazione regolare. In Garam Masala (Materiali Sonori) si viene trascinati in un vortice di umori africano-tribali su cui si innestano le evoluzioni jazz della tromba. E' comunque abbastanza agevole, a mio avviso, rinvenire dietro a tutto ciò un feeling molto latino, se non proprio mediterraneo; mi sento quindi di consigliare il CD anche a chi normalmente non ama le sonorità extraeuropee.

Gli ST 37 sono un simpatico combo di freaks texani la cui devozione al cosmic/space rock degli Hawkwind è totale. In Space Age (Black Widow) si colgono anche reminiscenze del kraut-rock di Can ed Amon Düül II, come testimoniato dalle covers; fra di esse, troviamo poi un felice, claustrofobico rifacimento di una traccia dei Chrome. Per il resto, pur sottolineando l'attitudine sicuramente ammirevole del gruppo, non si può non rilevare una vena compositiva poco esaltante, vista la strisciante monotonia che pervade i vari (poco sintetici) pezzi; le voci flebili ed una registrazione impastata complicano ulteriormente il problema.

Un capolavoro è invece Great God Pan (Black Widow), esordio dei francesi NORTHWINDS che, nei cupi e pachidermici riffs di chitarra, denunciano una perfetta assimilazione del doom di scuola Saint Vitus, ma la vera forza del disco risiede nell'inusitata, meravigliosa intromissione di elementi di folk celtico, in apparenza sacrileghi in questo contesto. Invece i transalpini risolvono la partita a proprio vantaggio grazie a flauto, bombarda e bodhran, capaci ora di accarezzarci con delicate melodie, ora di sottolineare le catacombali ambientazioni della chitarra. Si possono conciliare Black Sabbath ed Alan Stivell? Certo, parola di Northwinds! Originale e ben arrangiato, per me Great God Pan è fin qui il disco dell'anno.
Rimanendo immersi nelle tenebre, ritengo obbligatorio parlare degli svedesi
ARCANA, che con lo stupendo secondo CD Cantar de Procella (Cold Meat Industry) vanno a collocarsi ai vertici assoluti di quell'ambient gotica oggi (forse troppo) di moda. La formula, ormai ampiamente consolidata e sfruttata, è quella dei Dead Can Dance, a cui si viene ricondotti pure dall'assetto a due (uomo-donna) della line-up: l'abilità degli Arcana consiste allora nella sapiente manipolazione della materia sepolcrale congiuntamente alle suggestioni medievali, mentre l'aspetto tecnico è sempre onorato con competenza. Davvero riusciti i passaggi di clavicembalo, l'uso della voce femminile e certi arditi cori polifonici.

Esiste un'etichetta indipendente che, fin dai suoi primi approcci, ha amato definirsi "la Cold Meat Industry italiana": alludo alla milanese Eibon Records, il cui "boss", Mauro Berchi, è anche il leader dei CANAAN. E non v'è dubbio che Blue Fire mutui dalla label svedese il rabbrividente assetto elettronico e sperimentale di alcune tracks ed una vaga, composta glacialità nordica, ravvisabile soprattutto nell'atteggiamento vocale; tuttavia Canaan dimostra di non ricalcare pedissequamente certi stilemi evitando il Medioevo e facendo spesso un opportuno uso di un dark-metal più o meno progressivo. Ne esce un disco malinconico e, nel contempo, ricco di fisica solennità. Degno di menzione il digipack, formato A5.

I NIRNAETH, progetto alternativo di Marco Lippe dei Twenty Four Hours, calcano le scene fin dal '91, ma solo ora documentano su CD ciò di cui sono capaci. Nel titolo, The Psychedheavyceltale in 8 Movements (autopr.) c'è già il compendio della natura musicale di questo concept dalla chiara ispirazione fantasy. La componente predominante, quella metal, oscilla da maestosità epic a furiosi attacchi thrash, e per fortuna non sembra riferirsi a nessuno in particolare; notevoli poi le rarefazioni psichedeliche, sicuro retaggio del gruppo di provenienza di Lippe; di celtico, onestamente, non ho rilevato granché, a parte alcuni flautini qua e là e delle porzioni acustiche un po' sullo stile del vecchio Oldfield; i passaggi tastieristici, piuttosto, possono a buon diritto dirsi progressivi. Un lavoro dignitoso che merita l'acquisto: cercatelo nei negozi specializzati, e non pagatelo più delle 20.000 lire indicate.
A breve distanza dal debutto ufficiale, i nostri bravi ed eclettici
TRAUMFABRICK si ripropongono con il miniCD Città Violenta (Super Records), contenente tre pezzi. La title-track è la cover dell'omonima traccia di Morricone, che la band ha fatto propria inserendovi jazz, post-punk e thrash metal, mentre di 5+4 piacciono le variazioni tematiche, le dissonanze ed i "ripieni" noise. Chiude un estratto di Totentanz. Complessivamente si ha l'impressione che stavolta il gruppo abbia tentato la carta di una maggiore fruibilità, ma tutto è relativo…
Lontani dal convincere appieno sono gli americani
MAGUS con Traveller (InEarVisions), disco curiosamente scindibile in due tendenze opposte e contrastanti: troviamo così da un lato un pomp-rock che riporta alla memoria Kansas o Styx, dall'altro delle infinite elucubrazioni psichedelico-spaziali assai carenti sul piano dell'energia e dell'inventiva. La noia, alla fine, è la sensazione che prevale in maniera netta su tutte le altre, e se viene raggiunta una risicata sufficienza è solo per l'impegno profuso a livello tecnico.
Le cose vanno decisamente meglio con i francesi
EVIDENCE in Heart's Grave (Ad Perpetuam Memoriam), una sorta di opera rock di carattere religioso che è però ben distante da Jesus Christ Superstar; il modello musicale, seguito molto dappresso, è invece The Fall of the House of Usher del maestro Peter Hammill, al quale, guarda caso, questo lavoro è dedicato. Le parti vocali sono dunque declamazioni, talora rabbiose, collocate in un contesto drammatico che è esplicitazione del tormento interiore; veramente azzeccate e qualificanti le trame ritmico-elettroniche rivestite di connotati rumoristici ed effettistici. La capacità di attirare l'emotività dell'ascoltatore è indubbia, tuttavia il risultato resta inferiore rispetto all'archetipo.

Francesco Fabbri - maggio 1998

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