In quindici anni di attività giornalistica, questa è in assoluto la prima volta che un musicista mi invia, insieme al materiale promozionale, anche la fotocopia fronte-retro della sua carta d'identità... Dunque mi adeguo, e passo a presentarvi Massimiliano Meddi, nato a Roma il 7-3-1976 e ivi residente, celibe, altezza 1,78, capelli neri, occhi verdi, baffi, di professione compositore, cantautore e polistrumentista con particolare predilezione per lo sperimentalismo e i testi colto-claustrofobici. Non è la prima volta che me ne occupo, giacché sul n° 2 di Arlequins Newsletter recensii il demotape "Nekton" (1996). Da allora, però, non ne ebbi più alcuna notizia, così archiviai il caso come una delle tante 'estemporaneità volonterose' in cui noi recensori spesso ci imbattiamo, destinate a non avere un seguito. E invece no: a molti anni di distanza, vengo a sapere che il Meddi è artisticamente vivo e vegeto, e che nel frattempo ha inciso una gran messe di materiale autoprodotto.
Ben quattro i CD che mi sono arrivati. L'antologia
Massimiliano Meddi racchiude 15 pezzi composti fra il 1995 e il 2004. Benché abbastanza eterogenei, vi si possono ravvisare alcune matrici principali. La prima ("Notis", "Questionario", "L'Oliversità Unigarchica") è quella di un cantautorato obliquo, talora dissonante, che sfrutta testi a metà strada fra l'erudito e l'ironico così come avviene in Battiato, ed è a lui che Meddi pare spesso riferirsi anche nell'atteggiamento vocale. La seconda tendenza - che caratterizza, poi, gli altri tre CD - coinvolge invece un ambito classicheggiante e sinfonico: grazie al sapiente uso del Cubase si ha proprio l'impressione di trovarsi di fronte a un'orchestra. A cavallo fra Romanticismo e Stravinski il marziale incedere di "Scena di guerra per Orchestra Sinfonica", con un bel finale sospeso quasi morriconiano; a tale traccia è legittimo accostare la "Composizione per Coro Maschile e Orchestra Sinfonica", con liriche taglienti e ricercate. Meddi sembra inoltre avere una naturale propensione per le atmosfere oscure: l'"Intermezzo n° 2 per Orchestra moderna" è pienamente progressivo, elettrico e con forti richiami agli anni '70, vedi Ange e Tangerine Dream; e la "Scena di danza, per sintetizzatori e batteria", suona come un outtake di "Phaedra" (della premiata ditta Franke, Froese & Baumann, of course). Schizoide e stralunato il "Finale del 4° Poema, per Coro Maschile e Orchestra",  e assolutamente folli le minimali "Modulazioni per voce maschile, organo, timpani e quattro apparecchi per aerosolterapia" (sic!).

Megàloidian (sottotitolo poema drammatico per voce recitante, coro e orchestra moderna), del 2002, è opera anomala ed eccentrica fin dallo stravagante concept autobiografico che non si può descrivere ma che, caso mai, è bene leggersi; musicalmente vi sono affastellate diverse intuizioni anche interessanti, vedi certe aperture tipicamente prog dell'"Introduzione" e della "Scena 1" (bello il Farfisa planante), alternate a sperimentali rumorismi che prevedono partiture rovesciate ed enigmatiche manipolazioni che risultano ben poco fruibili. Ancora Battiato emerge nei beffardi lirismi modulati dal Meddi, che col cambio di scena - la 2 - imbraccia la chitarra elettrica col distorsore e si dà all'elettropsych. L'assetto si fa orchestrale e sinfonico con la "Scena 3", dall'accentuata propensione teatrale e dall'avvincente carica drammatica, che si placa nel sontuoso, rasserenante finale, e in qualche modo lo schema si ripete nella scena successiva, anche se qui a dominare sono spesso e volentieri gli stravolgimenti vocali. Fra porzioni orchestrali ed elaborazioni elettroniche l'opera si avvia al termine, e si lascia apprezzare il bel monofonico in stile prog '70 della "Scena 5". Forse balordo e bislacco, talora sicuramente frammentario, il lavoro è a suo modo affascinante.

Tellurian (sottotitolo poema drammatico per baritono, coro maschile, voci bianche, materiali sonori e orchestra moderna), del 2003, prosegue sulla stessa falsariga sia dal punto vista concettuale che musicale, allungando però il minutaggio complessivo di almeno un quarto d'ora e, con esso, anche il brodo. Dunque i momenti migliori sono quelli in cui l'afflato inventivo trova una ragionevole sintesi espressiva: buone le orchestrazioni otto-novecentesche della "Scena 1", e ancor più convincono la chitarra distorta, contrappuntata da un caustico moog emersoniano, della "Scena 2", come pure l'aereo, sospeso tappeto di synth che caratterizza i due "Intermezzi", nel secondo dei quali va segnalata una pregevole accelerazione ritmica che mi ha ricordato il Biglietto per l'Inferno. Meddi rende meglio laddove destina la sua inquietudine verso un prog più tradizionale, mentre smarrisce talora il senso delle proporzioni quando sperimenta con la parola: i 22 minuti totali delle Scene 4 e 5 spesso si perdono in teatrali recitati che non sempre lasciano il segno, ma per fortuna l'opera è chiusa positivamente con la misurata estrosità della "Scena 6", e col burlesco, polifonico "Finale", dove trovano posto anche un bambolotto che piange e quel coretto tipo fiabe per bambini già ascoltato nella "Scena 3".

Sbat! (sottotitolo poema sinergico per voce solista, sezione ritmica e sinfonica), del 2005, si può dire che chiuda il cerchio, descrivendo l'evoluzione e, al tempo stesso, il ritorno alle origini del personaggio Notis-Meddi. Come per Tellurian, anche l'ascolto di Sbat! impegna per più di un'ora, ma qui i contenuti sono più a fuoco e meglio estrinsecati. Non annoiano i dieci minuti della "Ouverture epica", in cui gli ondeggiamenti ambient alla Brian Eno si risolvono in una bella partitura sinfonica. La prima suite, dopo un non indispensabile assolo di batteria ("Multimetrie"), gioca gradevolmente con l'effettistica elettronica ("Magmatismo"), prima di un buon connubio tastiere-basso-batteria secondo i moduli di un prog più canonico, dove emerge uno schizzato Hammond ("In Antròpoli"), per concludersi col consueto recitato su una base piuttosto scarna ("I Dinamàntropi"). Ammaliante l'arpa e il tenue cantato dell'intermezzo "Il canto di Hypnos", che prelude alla seconda suite, la quale si apre con i fonemi stratosiani di "Lallazione". Non male "Trolley!", snodantesi fra acusticità chitarristiche che ricordano Hackett e uno space-prog di stampo teutonico (Eloy). Rumoristica è "Ultima Baldoria", mentre estremamente positiva risulta "Fiamme Ossidriche", con forti richiami ai Goblin, vedi l'organo e soprattutto il basso alla Pignatelli; il commiato è affidato alle catartiche epicità tastieristiche di "Platinum".
Dovendo dare un giudizio complessivo sull'operato del Nostro, ritengo indispensabile lo scinderne i vari aspetti. E allora assegno un bel dieci al Meddi forgiatore timbrico e tecnico del suono, otto al progster anni '70, sette al compositore classico/sinfonico, mentre c'è qualcosa che non soddisfa circa il Meddi 'estremista' (il cantautore da un lato, lo sperimentatore dall'altro). In generale, forse sarebbe utile al musicista romano la presenza di un produttore, un collaboratore, o comunque un supervisore esterno che sappia temperarne gli eccessi e incanalarne l'energia creativa.

Francesco Fabbri - novembre 2005

Il nuovo 'parto' di quel singolare e originale personaggio che è Massimiliano Meddi aggiunge un altro tassello, almeno per quanto riguarda il titolo, nella lista delle astrusità: Aglaofeme (romanzo musicale in arie e scene, per canto lirico e moderno, con accompagnamento acustico, sezione ritmica e orchestra sinfonica), si pone stilisticamente come la logica prosecuzione di Sbat!, da me già recensito. Nel frattempo è accaduta una siginificativa novità: la collaborazione col soprano Maria Caruso, con la quale pare ben avviato un percorso di sinergia spirituale e di vita. Tale intesa ha invero già prodotto il poema sinfonico Partiture Vol.1, cui ha fatto seguito il CD in esame. A livello testuale si coglie adesso uno spiccato interesse per le tematiche religiose, e ciò si riflette anche nel particolare universo sonoro meddiano, sempre alquanto colto e sperimentale, ma certo più accessibile e disteso, un po' meno spigoloso.
Ad eccezione di alcuni inserti di batteria acustica, tutto il resto è generato, come di consueto, dal Cubase, che Meddi usa abilmente ricavandone ogni gamma timbrica. Il prologo "Agli antipodi" è traccia cupa, per organo ed effettistica elettronica; buona la suggestione creata dai teatrali recitativi, che ricordano Gruppo d'Alternativa e Pholas Dactylus. Si entra nel cuore dell'opera con le tre arie per soprano e chitarra classica. Non sempre l'attenzione è tenuta viva, ma è comunque singolare il contrasto fra i tenui arpeggi, talora dissonanti, e la voce impostata della Caruso. Il prosieguo si fa sinfonico e più convincente: Meddi rivela idee e capacità di orchestrazione, alternando tratti oldfieldiani e squarci paradodecafonici ("Intermezzo"), ottimi afflati progressivi ("Trigon") ed elegiache cascate di note per pianoforte, vagamente
à la Wakeman, accompagnate da eccellenti svolazzi cosmico-teutonici ("La ballata delle ninfe"). Nelle due scene successive, "Diékplus" e "Perìplus", e nell'epilogo "Zeus ex machina", colpiscono i torridi moog e le aspre ritmiche, che poi sfociano in stentoree, epiche, variegate trame organistiche.
Meddi rimane a suo modo un musicista geniale ed estroso, però confermo l'auspicabilità di una presenza 'critica' al suo fianco. Considerando le infami schifezze che pullulano negli odierni cataloghi delle prog labels italiane e straniere, il metterlo sotto contratto non sarebbe certo disdicevole.

Francesco Fabbri - giugno 2007

In accordo col suo iter non solo musicale ma più globalmente umano e spirituale, Meddi procede imperterrito lungo l'accidentato percorso semisolitario che s'è da tempo scelto. Uniche eccezioni, come nel precedente "Aglaofeme", sono sempre due entità: la sua Musa ispiratrice Maria Caruso, compagna di vita, ma soprattutto, a sovrintendere con forza l'intero progetto, l'azione salvifica di Dio. Il concept "Daedalus" nasce dunque dal mito greco, si sviluppa attraverso l'omonimo romanzo di Joyce, per trovare infine compostezza in quel "Signore che vince la morte con la mansuetudine di un agnello".
Che "Daedalus" non possa essere ascoltato con disattenzione lo dice il sottotitolo, anche qui tutto un programma:
itinerario fono-sintonico sulle accessibili trans-formazioni, in tema di "agito co-autobiografico" per voci miste, orchestra, organici strumentali moderni e sezione ritmica. Ancora un'opera d'avanguardia, quindi, però non astrusa o inintelligibile, com'è del resto nelle corde del Meddi più recente, che bilancia con cognizione di causa gli estremismi da Rock In Opposition e gli afflati più classicheggianti. Infatti in "Una prece: labii me nèuri" troviamo echi di contemporanea religiosità fusi con la polifonia rinascimentale; sui cantati lirici della Caruso e dello stesso Meddi vanno a svilupparsi oblique orchestrazioni. L'imprevedibilità delle soluzioni arrangiative si coglie poi ne "Il promontorio di Olmia", dove una planante apertura col mellotron prelude a un poderoso intervento ritmico; le cosmiche rilassatezze emergono pure nella convincente "Daedalus airplane". Denota intelligenza la successione degli eventi musicali, perché in "Fillotassi" si prosegue a sviscerare l'ambito kraut; cambio totale di registro con "Nel collegio di Clongowes Wood": curioso l'accostamento di armonica e chitarra psichedelica; si rientra, in parte, in ambito teutonico con "Matemàulica", azzeccato connubio di roboticità kraftwerkiana e fisicità latina. Altro vertice assoluto è l'ipnotica "Albedine": profumano di Enya le vocals stratificate, e difatti qui si tende all'ambient, anche se molto sui generis. Predominano invece gli accenti epici nei due pezzi conclusivi, e "Haptic in exit" è rivestita di solennità, mentre l'"Inno di resurrezione" si dispiega alto e significativo, sempre con melodie assolutamente particolari.
Detto dell'incisione, al solito molto buona, non resta che rimarcare l'originalità della proposta, davvero indefinibile: per fortuna è così, e l'ascolto senza pregiudizi dell'ineffabile sperimentalismo meddiano non può deludere.
Contatti:
www.notis.it.

Francesco Fabbri - giugno 2008

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