I Marascogn nella vecchia formazione. Da sinistra: Lorenzo Galbusera,
Mario Färber, Fabio Chiocchetti, Angela Chiocchetti, Stefen Dell'Antonio

Adoro Moena e la Val di Fassa. Da sempre frequento quei luoghi da cui proviene mia madre e che sono ingioiellati dalle Dolomiti, ovvero le più belle montagne del mondo, che rimangono tali malgrado i molteplici, pervicaci tentativi di imbruttimento del territorio perpetrati negli ultimi decenni e, purtroppo, andati quasi tutti a segno. Nondimeno le evoluzioni escursionistico-alpinistiche che vi sono tuttora possibili mi gratificano nel corpo e nello spirito, e forse anche per questo continuo ad amarne in maniera profonda anche il peculiare quadro socio-culturale.
Definire però cosa s'intenda oggi per "ladinità" non è facile, e ciò per l'obiettiva difficoltà che sussiste nel discernere con esattezza chi, per fattori di mero opportunismo economico, si riempie la bocca con tale parola da chi, per contro, crede veramente in certi valori e cerca di portarli avanti con sincerità, magari adattandoli al contesto contemporaneo.
In tutto ciò si situa la lunga parabola artistica dei Marascogn (il nome allude alle antiche maschere del carnevale fassano), gruppo moenese che, a partire dall'ormai lontano 1978, ha sempre creduto nella propria piccola ma preziosa missione: riproporre il cospicuo e meritevole repertorio tradizionale affiancandogli elementi compositivi nuovi e personali. In coerenza al loro credo di
Ciantastories contemporanei, i musicisti hanno dunque portato in giro se stessi e i loro dischi, facendosi conoscere e apprezzare per la pregevole valenza esecutiva e per la grande dignità con cui estrinsecano la 'nuova cultura ladina'.
Da circa vent'anni ho avuto il piacere di vederli dal vivo: ogni volta ai loro concerti mi sono divertito, risentendo le arie canticchiate in casa da mia madre fin da quando ero bambino, e ponendo viceversa attenzione nei confronti dei pezzi creati
ex novo. La scorsa estate non ho dunque potuto perdermi le due esibizioni live, tenutesi entrambe a Moena. La prima, in luglio, è avvenuta nella cornice assai suggestiva del Tabià Copeto nel rione Turchia ed è stata prevalentemente incentrata sulla parte più tradizionale del repertorio. Del tutto diversa la data di agosto, un vero show multimediale nel Teatro dell'Oratorio: oltre alle musiche, vi sono state narrazioni di leggende popolari, mentre, alle spalle degli artisti, scorrevano alcuni splendidi disegni di Milo Manara appositamente creati sulle tematiche in questione. Ma a sorprendermi più di tutto sono forse state proprio le nuove composizioni, che sinceramente non conoscevo: pur senza un taglio netto col passato (impossibile e fors'anche improponibile), il folk dei Marascogn è adesso assurto a una dimensione realmente progressiva.
Per tali motivi ho avvertito un forte desiderio di saperne di più, e così ho incontrato i... 'soci fondatori' del gruppo, ossia i due fratelli Chiocchetti "del Goti", Angela (voce, percussioni), e Fabio (voce, chitarra, autore e arrangiatore). Angela è bionda, solare ed estroversa, Fabio invece è moro, 'serio' e professionale: li accomuna però una grande carica comunicativa, e con estrema cordialità e gentilezza mi rendono partecipe della loro storia, di vari aneddoti e dei progetti futuri. Faccio i miei complimenti per i risvolti progressivi contenuti negli ultimi pezzi, ma Fabio, sorridendo dietro i grandi baffi, pare schermirsi: "In realtà non credo che i Marascogn siano 'progrediti' così tanto... Al massimo, dalle influenze medievali e rinascimentali siamo passati a quelle barocche...". Mi parla poi di come è nata la collaborazione con Milo Manara, che ha accettato con entusiasmo di tradurre visivamente le fiabe locali con quelle illustrazioni i cui originali sono conservati presso il Museo Ladin di San Giovanni di Fassa. A proposito dei concerti, vengo a sapere che, almeno nei primi tempi, il gruppo ne faceva una media di dieci o dodici all'anno, e che è arrivato a esibirsi addirittura in Finlandia e negli Stati Uniti, in occasione di festival dedicati alla world music! "Oggi è diventato più difficile", soggiunge Angela. "Siamo vincolati dagli impegni lavorativi e familiari, oltre a essere tutti un po' sparpagliati in giro: già riuscire a conciliare le varie esigenze per le due date di luglio e agosto è stata una piccola impresa...". Tali problemi logistici, nel tempo, hanno costretto la band a una serie di avvicendamenti e rimpasti, e negli ultimi concerti, a parte i due fratelli Chiocchetti, della formazione 'storica' è rimasto il solo Lorenzo Galbusera, contrabbassista che può vantare un diploma al Conservatorio di Trento. Ma il fare di necessità virtù rendendo flessibile la line-up non rappresenta certo un problema, come rimarca Fabio: "Da sempre i Marascogn sono un 'gruppo aperto', disponibile e anzi felice nell'accogliere membri esterni, il che non può che arricchirci artisticamente". Beninteso garantendo in qualche modo la contiguità e la compatibilità, giacché Fabio mi dichiara la propria avversione nei riguardi della musica elettrificata, prediligendo per contro gli ambiti acustici o addirittura intimistici: presentando in concerto i Marascogn, ha infatti definito la loro come una musica
da stua (= stanza). E allora cominciamo a esaminare nello specifico le incisioni dei Marascogn, seguendo un ordine cronologico.

In questo CD sono integralmente raccolti i primi due LP del gruppo. De roba veyes e de növes tempes risale al 1983 e comprende tredici canzoni, tutte piuttosto brevi. La struttura è sobria ed essenziale, ma il disco è ugualmente importante per svariati motivi. Innanzitutto vi si trovano alcuni pezzi di Luigi Canori (al secolo Ermanno Zanoner) diventati storia della ladinità in musica. Il... 'trattamento rivitalizzante' operato dai Marascogn è sempre significativo, pur nella rispettosità dell'originale. E così è un piacere riascoltare la struggente malinconia de "La Marmolada", cui subito si contrappone la piacevole leggerezza de "La cianzon de la Vesc". Quanto a "El lèch da le lègreme", la bellissima melodia a cappella sfocia poi in un calzante arrangiamento strumentale che profuma di Rinascimento, mentre della leggendaria storia d'amore de "La siriöla de Saslonch" ammalia il contrasto fra la triste tematica testuale e la levità musicale. Accanto a tutto ciò, compaiono le prime notevoli composizioni a firma Fabio Chiocchetti. Assolutamente da brividi è "El faure", su una poesia di Luciano Jellici "del Garber": grande la suggestione del connubio, e profondo lo struggimento. Nell'"Entrada" e nel "Cumià" la materia è ben plasmata in chiave antica, e "En tel paes" si può già considerare un classico; quanto a "Le peste", "Mijerie e maschere" e "I più i sc'iava la tera", non è eresia affermare che vi si trovano tracce dei moderni chansonniers d'oltralpe, quelli stessi che influenzarono pure De André. Le partiture vocali soliste sono di norma affidate ai due fratelli Chiocchetti: Fabio è profondo e confidenziale, Angela acuta e cristallina, impostata in maniera naturale. Il fascino del sound dei Marascogn, diciamolo, risiede non poco nelle interpretazioni di quest'ultima.
Audide audide! uscì invece nel 1989. Dieci i pezzi ivi contenuti, mediamente più lunghi rispetto al passato e certo più elaborati: lo si evince fin dall'ouverture costituita dalla title-track, idealmente ricollegabile all'"Entrada" del primo disco, ma con una migliore messa a punto. Di rilievo è "La maitinada da la roda da filar", musicata da quel Mario Färber che per molto tempo è stato il violinista del gruppo: nei cinque minuti lungo i quali si dipana la gustosa ballata, dove hanno modo di affacciarsi anche alcuni assoli, pare proprio di vedere una ruota per filare. "La osc del molin" è poi una delle migliori composizioni di Fabio: maiuscole le melodie e intriganti le armonizzazioni, per un risultato finale di squisita eleganza. Una toccante poesia di Pasolini, "Ciant da li ciampanis", riceve un adeguato trattamento da parte di Färber, che qui accompagna al pianoforte i virtuosismi vocali di Angela. Lo stesso Färber conferma la sua naturale predisposizione alle onomatopee in musica nei pizzicati de "La piövia", col suo violino che ben si conforma a una mesta riflessione di Luciano del Garber, e non posso esimermi dallo spendere qualche parola in più per la conclusiva "Elegia". Tale traccia, composta da Färber oltre che dal fiatista Stefen Dell'Antonio (anch'egli, ora, uscito dalla band), è forse la più simil-prog del lotto: ben forgiata e intelligentemente rifinita, affascina nelle evoluzioni del pianoforte e del flauto. Il testo, ahimè profetico, parla della decadenza che affligge Moena. Se ciò poteva valere già tre lustri fa, figurarsi adesso... Peccato solo che, come rivelatomi da Fabio, non sia mai stato possibile eseguire il pezzo dal vivo per varie problematiche di ordine tecnico.
Cantori di leggende e di storie vere, magari con un sottofondo di catartica inquietudine, i Marascogn già piacciono, e molto. Fabio non mi sembra oggi del tutto soddisfatto di queste prime incisioni. Non dategli retta: forse la sostanza musicale è ancora un po'
in fieri, questo sì, ciò nonostante l'insieme è sincero e gradevolissimo, e la splendida voce di Angela è già ai massimi livelli.

Nel corpo della discografia dei Marascogn, Pinza pinzona è una realizzazione che, almeno di primo acchito, parrebbe avulsa dal contesto. Lo stesso supporto è inconsueto, trattandosi di una doppia musicassetta (peraltro, ne è prevista la ristampa in CD). Ma il sottotitolo dell'opera già spiega tutto: 12 cianties ladines per i tosac - con basa musicala. Siamo dunque di fronte a un progetto nato espressamente per i bambini delle scuole, e così in una cassetta troviamo i pezzi completi, nell'altra le sole basi musicali. Fabio scuote la testa, con un pizzico di comprensibile delusione: "La cosa non ha avuto l'accoglienza che speravamo. Le maestre, purtroppo, preferiscono far ascoltare i dischi dello Zecchino d'Oro...". Con tutto il rispetto per le insegnanti da un lato, e per la manifestazione bolognese dall'altro (che da piccolo seguivo assiduamente), è un autentico controsenso sociologico l'accantonare con tanta disinvoltura la cultura locale; d'altronde anche questo è un segno tangibile dell'omologazione che avanza inesorabile...
Benché il fine didattico sia preminente, quelle di
Pinza pinzona non sono però liquidabili come semplici "canzoncine per bambini". E' pur vero che la struttura musicale risulta volutamente scarnificata rispetto alle altre incisioni dei Marascogn: di norma, i pezzi si reggono solo sul pianoforte (dell'ospite Marika Bettin) e la voce di Angela, mentre i fiati (clarinetto, oboe, flauto) e gli archi (violino, viola, violoncello) si limitano a rifinire il tutto. Ma alcune melodie sono proprio belle. Alludo in primis a una famosa composizione di Canori, "Te cianal de legn", e a un altro brano di ispirazione religiosa, musicato questo da Fabio, cioè "Jon a Maitin". Mettono addosso l'allegria "La velgia ja le Nòtole" e "Le gialine" (sempre a firma Luigi Canori); carini e briosi sono pure i frammenti in cui vengono fatti partecipare gli alunni della scuola elementare e media di Moena: "Che élo po ju per sto busc?", "La signora de Dolèda" e "Le dàrmole", mentre spetta una citazione particolare per la fresca giocosità di "Pinza pinzona", traccia creata da Fabio e da Stefen Dell'Antonio e spesso eseguita dal vivo.

E' nel 2000 che i Marascogn cesellano la loro gemma più fulgida. Dall'"incontro fatale" con l'ensemble di musica antica L'Albero Incantato scaturisce Fior e foa, reisc e magoa, CD accreditato a entrambi i gruppi: diciassette le tracce complessive, per quasi un'ora di autentico godimento per i padiglioni auricolari.
Non v'è dubbio che l'ingresso dei nuovi musicisti abbia assai giovato a livello timbrico e armonico, oltre ad aver innalzato il tasso tecnico. Già nell'opener "Fior e foa" emerge un importante tassello del recente corso marascognano, ovvero la spinetta di Gabriele Micheli, che alimenta il clima di fiabesca suggestione. Stupendi i quasi cinque minuti di "Fanes", dove Fabio omaggia il noto
Minnesänger Von Wolkenstein, e la superba ricchezza strumentale ci proietta in dimensioni magicamente polverose. Seguono alcuni pezzi dedicati alla leggendaria, sfortunata storia d'amore di Osvald per la vivana Antermoia: da brividi i contrappunti vocali di "Man de fier", e travolgente la rielaborazione denominata "L bal de la stries", che dal vivo trascina di forza il pubblico verso antichi castelli e allegre corti. Solo il piano (dell'importante nuovo acquisto Paolo Bernard) e la voce sempre precisa e intonatissima di Angela tratteggiano il toccante "Ciant de l'aisciuda", e dopo il convincente impianto polifonico di "El mal d'amor" la vicenda trova la sua degna conclusione nell'appassionata "Ultima ciantia". Si prosegue con l'avvenente melodia catalana del XVI secolo di "Amor, ray de soreye", e si passa in Engadina con i raffinati ghirigori rinascimentali di "Bös-ch rumantsch". Ci sono poi alcuni pezzi di Luigi Canori in cui è agevole riscontrare il suo modulo compositivo. Alludo a esempio a "Le doi cascade" (che pure non conoscevo) e a "Ciadina": attento e calzante l'arrangiamento del doppio ensemble. "Bal fascian" è una briosa danza strumentale basata su un'aria tradizionale riadattata da Fabio, il quale firma fra l'altro il trittico finale del CD, davvero di ragguardevole caratura. "Dormi dormi" è una dolcissima ninna nanna, mentre eleggo i quattro minuti e mezzo di "Franca" tra i miei preferiti del lotto: ammalianti la chitarra e il cantato di Fabio ed eccellenti le armonie ricamate dal violino oltre che dalla voce di Angela. A metà fra gli chansonniers francesi e... Morricone! "Gigadadoi", in ultimo, è ancora una danza, ma molto sui generis, intrisa di visionarietà e mestizia; vi si colgono inoltre alcuni elementi barocchi che, verosimilmente, costituiranno la base di partenza per la futura evoluzione compositiva dei Marascogn.
Ben inciso e riverberato nello studio del roveretano Marco Olivotto, vecchia conoscenza del mondo prog sotto le sembianze TNR,
Fior e foa, reisc e magoa è davvero un grande disco, alla cui riuscita hanno sensibilmente contribuito Davide Monti (violino), Emiliano Rodolfi (oboe, flauti) e Margherita Dal Cortivo (violoncello), oltre ai già citati Gabriele Micheli e Paolo Bernard. Fiore e foglia, radice e frutto come metafora della vita, a significarne la sua unitarietà e nel contempo la sua perpetuazione: l'auspicio è che ciò valga anche per i Marascogn, il cui nuovo cammino si preannuncia esaltante.

A corollario della disamina discografica, è doveroso segnalare quest'opera classica di Claudio Vadagnini in cui il nostro Fabio Chiocchetti figura come librettista. I Marascogn dunque non c'entrano, eppure Conturina non stona nella presente trattazione per almeno due buoni motivi. Innanzitutto il lavoro è dedicato a un'antica leggenda fassana, e proprio su tali tematiche i Marascogn hanno da sempre intessuto la loro arte. In secondo luogo anche in Conturina risulta agevole rinvenire un progetto di "innovazione nella tradizione", teso ad attualizzare la cultura ladina al fine di poterla rendere interessante e 'appetibile' nel mondo contemporaneo.
La "piccola opera per solisti, coro e orchestra" dal punto di vista testuale tiene conto dei vecchi frammenti che, in passato, hanno contribuito a delineare la vicenda: in particolare, le quartine redatte nel 1952 sono qui utilizzate nel "Preludie", nei tre "Interludies" e nel "Final"; accanto a ciò, Fabio ha elaborato una propria poetica ricostruzione che compone i quattro "Chèdres" (= quadri). Musicalmente il lavoro presenta una varietà tematica condotta con mano sicura, e i cambi di registro ben si adattano alle molteplici atmosfere che si succedono. Lo si desume già nel "Preludie", dove, alla lugubre e maestosa "Introduzion", segue il drammatico motivo di "Conturina", che si fa elegiaco nel "Cor de la resteléris". Poi inizia la storia vera e propria: il Principe, Signore di Contrin, canta una soave ninna nanna alla figlioletta Conturina, e, dovendo partire per la guerra, affida la propria amata alle Vivane, le quali, però, gli predicono già il triste futuro che l'attende, senza poterlo cambiare. Il Principe muore, e Conturina, rimasta con la crudele matrigna, cresce senza amore e piange la sua triste condizione. Diventata grande, la fama della sua bellezza è tale che i cavalieri giungono da lontano per ammirarla, ma la matrigna obbliga Conturina a starsene in disparte, proponendo invece ai convenuti le sue due vere figlie, brutte e sgarbate: ben si comprende come sia legittima la definizione di "Cenerentola fassana" attribuita a questa leggenda! Buona l'enfasi de "La Maerigna", e fresca la baldanzosità de "I Cavalieres al bal", che prelude ai due intermezzi di danza: garbato e misurato il primo, brioso il secondo. Ma Conturina è sempre la più ammirata, così la matrigna si rivolge alle Streghe di Vael: gli accenti si fanno cupi, e la velenosa soundtrack fa da sfondo all'incantesimo ("L strionament") lanciato sulla povera Conturina, che viene pietrificata sulle rocce che sovrastano il Passo Ombretta. Il sortilegio potrebbe però essere vinto dall'amore, qualora un giovane giungesse fin lassù entro sette anni, e per questo Conturina, nelle notti di luna piena, emette il suo dolce e infelice canto: a tale momento della storia è dedicata la meravigliosa illustrazione di Manara riportata in copertina. Proprio allo scadere del settimo anno un soldato, di sentinella presso il valico, ode la desolata melodia. Ne scaturisce un intenso e appassionato dialogo ("Conturina e l'Ariman"), nel corso del quale il soldato promette di ritornare l'alba seguente, così da arrampicarsi sulla rupe e spezzare la malia. Ma il fatto che, al termine dell'episodio, la voce di Conturina si perda lontana ci fa presagire il prosieguo: l'indomani è già tardi, e la fanciulla si ritrova mutata in roccia per sempre. Nessun lieto fine, dunque? Non proprio. Nell'epico e imponente "Final" ("La cianzon de Conturina"), declamato da tutti, solisti e cori, si rinviene il senso profondo della leggenda: Conturina non si ritrova annientata, bensì immortalata e decantata per l'eternità, compenetrandosi idealmente con quella Marmolada che oggi affascina gli artisti di ogni provenienza.
Il CD è stato registrato dal vivo in occasione della 'prima', avvenuta al Teatro Sociale di Trento nel 2001. Benché un'opera lirica rimanga un qualcosa che è meglio vedere oltre che ascoltare, già questo disco risulta appagante per comprenderne l'indovinato connubio fra parole e musica. Buona l'esecuzione generale, con la sola riserva nei confronti della protagonista, il soprano Francesca Micarelli, la cui interpretazione appare un po' forzata. Il lavoro ha avuto varie repliche, come la scorsa estate a Tesero (Val di Fiemme), con un cast parzialmente rinnovato.

Moena nei primi decenni del secolo scorso: un paese che oggi non esiste più...

In chiusura di questa analisi, vanno pur fatte delle riflessioni intorno al problema di fondo, cioè la sopravvivenza della ladinità nel 'villaggio globale' contemporaneo. Già da molti anni io sono estremamente pessimista al riguardo, poiché l'adesione inconscia e incondizionata a certa squallida 'cultura di massa' propinataci dai mezzi di comunicazione è un fenomeno palpabile, e soprattutto le nuove generazioni mostrano un interesse scarso o nullo verso le preziose peculiarità del passato. Un termometro significativo è il linguaggio, e infatti il ladino parlato dai ragazzi di oggi suona spurio, imbastardito e infarcito da elementi trentino-italici. Si tratta di un processo ahimè ineluttabile, e la buona volontà di pochi non può opporsi all'ormai avvenuta omologazione dei più. Gli stessi Fabio e Angela sono senz'altro ammirevoli per la pugnace dedizione nel portare avanti ciò in cui credono, ma loro per primi, nel corso dei nostri colloqui, mi sono parsi realisticamente disillusi in merito all'esito finale della 'battaglia'. E se è vero che, allo stato attuale, i singoli possono fare ben poco per ribaltare la situazione, è tuttavia disdicevole l'immobilismo, per non dire l'ostruzionismo, da parte di chi avrebbe in mano gli strumenti giusti - educativi, ma non solo - per gettare almeno qualche buon seme.
Ne ho avuto una riprova all'inizio di settembre, quando sono stato invitato da Fabio a un'interessante presentazione avvenuta presso il Museo Ladin di San Giovanni. Nel corso dell'happening pomeridiano, dedicato a due nuove pubblicazioni edite dall'Istitut Cultural Ladin, oltre a brevi discorsi da parte di coloro che, a vario titolo, erano coinvolti nel progetto, vi sono state letture di passi dei suddetti libri e meravigliosi intermezzi musicali eseguiti dal violinista Davide Monti e dall'arpista irlandese Maria Cleary, altra importante acquisizione dei nuovi Marascogn. Ebbene, malgrado la bontà dell'iniziativa (o, per dirla in neoladino, della
scomenzadiva), l'auditorium del Museo era desolantemente semivuoto, e le diserzioni meno giustificabili riguardavano proprio quel corpo didattico della valle che avrebbe dovuto essere presente, dato che la manifestazione era stata concepita in primis per le scuole. Nelle dissertazioni introduttive (rigorosamente in ladino, come tutto il resto), l'amarezza si poteva affettare col coltello...
Ma il fattore che più di ogni altro sta estinguendo con grande rapidità il mondo ladino è ovviamente il turismo. Le metamorfosi degli ultimi anni sono state cospicue, non solo a livello di banalizzazione del territorio, ma anche di mutamenti delle attività produttive, con conseguente cambio di mentalità degli autoctoni. L'aspetto 'visivo' è quello che può esser facilmente colto anche dal frequentatore distratto, purché affezionato nel tempo (malgrado tutto...) ai paesi della Val di Fassa. Oggi questi luoghi hanno smarrito le loro peculiarità e le attrattive di una volta, preferendo svendersi a una logica prettamente mercantile che li ha trasformati in tante Disneyland plastificate, e a Moena, la sera dopo cena, è ormai abituale l'odioso sottofondo di musiche e voci amplificate che si sparge dappertutto, manco si fosse nel più scalcinato luna park. Grosse colpe ha il turismo invernale, specie quello "mordi e fuggi" del becero sci da discesa, i cultori del quale di norma rifiutano il fondo perché "è faticoso", come pure "è faticoso" l'escursionismo, e infatti costoro d'estate vanno quasi tutti al mare... Nel nome di questi sedicenti 'sportivi' si abbattono intere foreste per far posto a nuove piste e nuovi impianti di risalita, cancellando incontaminati angoli di Paradiso terrestre come la Val Giumela, rovinata per sempre! E che dire, poi, di quelle orribili costruzioni gonfiabili per bambini che troneggiano sul Ciampedie e sul Ciampac? Meglio evitar commenti... Certo, mettendosi nei panni di chi, una volta, si ammazzava di lavoro coltivando la terra o allevando animali, si deve ritenere che è umano cedere alle lusinghe dell'arricchimento facile e veloce portato dal turismo. Bisogna però pensare anche alle conseguenze a lunga gittata, giacché non si può mungere fino all'inverosimile la "vacca grassa", e Moena è lì a testimoniarlo, strangolata com'è dal traffico e soffocata dallo smog. Per tentare di risolvere il problema, si sta oggi spappolando il fianco sinistro della valle per attuare una variante nel cui progetto sono compresi una galleria e un viadotto. Tale realizzazione, purtroppo, è divenuta necessaria e improcrastinabile, ma poteva non esserlo se solo venti o trent'anni fa si fossero adottati modelli di sviluppo ecocompatibili. Vedremo poi l'impatto ambientale di questa bazzecola.
Ricollegandomi al preambolo del mio articolo, il turismo c'entra eccome in un ulteriore elemento che non va affatto trascurato, considerando che esso è pericoloso proprio nel suo ruolo di subdolo tarlo che sta rodendo dall'interno la cultura locale. Si tratta dello svilimento dell'essenza stessa della ladinità per farne un fenomeno da baraccone, da gettare in pasto al forestiero come semplice curiosità da circo equestre. Tale infame paccottiglia dovrebbe essere rifiutata in blocco da tutte le persone di buona volontà, fassane o forestiere che siano. E invece no: il primo ad abboccare, ovvio, è il villeggiante, che più o meno inconsapevolmente è felice di lasciarsi abbindolare da un simile mercimonio storico; ma chi ci sguazza davvero sono moltissimi valligiani, a parole sostenitori della ladinità, nei fatti interessati solo alla vil pecunia e dunque gongolanti nell'aver scovato la gallina dalle uova d'oro. Almeno finché dura... Tutto ciò è solo 'folclore' nel senso deteriore del termine, e sta fatalmente minando la più intima coscienza del mondo ladino.
E' quindi davvero perverso l'effetto fagocitante del Sacro Dio Turismo, sull'altare del quale si immolano tutti i propri valori, financo la propria dignità. Non c'è più religione? Parrebbe di no, tant'è che a Moena lo storico crocifisso, posto alla base della salita per la chiesa, è stato sfrattato dalla sua sede naturale e spostato più in alto, cosicché possa assistere meglio all'ennesimo scempio del paese: una fantomatica "ristrutturazione del polo scolastico" che, in realtà, nasconde la solita bieca speculazione edilizia, sotto forma di un parcheggio coperto...
Ma lasciamo perdere tutto ciò e rivolgiamo in chiusura un plauso ai nostri Marascogn, senza pensare se il loro ruolo sia accostabile a quello di Don Chisciotte contro i mulini a vento: d'altra parte, a questo mondo esistono sfide che è giusto affrontare indipendentemente dalla vittoria o dalla sconfitta. Conoscere i dischi del gruppo moenese, accattivanti anche nella grafica raffinata, forse non muterà il destino della minoranza ladina, ma farà un gran bene all'anima del fortunato ascoltatore che, come il sottoscritto, attenderà poi con impazienza il nuovo CD, la cui uscita è prevista per il 2006. Non esiste purtroppo un sito Internet ufficiale dei Marascogn; è però possibile contattare Fabio tramite il suo
recapito e-mail. E chi volesse informazioni generali sul contesto storico-territoriale può intanto visitare il sito dell'Istitut Cultural Ladin (non preoccupatevi, c'è anche la versione in italiano!), ente di cui Fabio è il direttore.

Francesco Fabbri - ottobre 2005

Lungamente atteso, più volte rimandato per avversità di ogni genere, è finalmente realtà il nuovo CD dei Marascogn. Davvero il diavolo pareva averci messo la coda, specie quando sono sorti problemi alla divina voce di Angela Chiocchetti, ma tutto si è risolto per il meglio: peripezie e contrattempi sono ormai alle spalle, e assolutamente non si ravvisano nell'accuratezza di questa release.
Fin dall'avvenente digipack i Marascogn hanno fatto le cose in grande, e l'ascolto rivela un ensemble consapevole e motivato. Infatti, nelle intenzioni del leader, Fabio Chiocchetti,
L poet e la vivana dovrebbe costituire una sorta di summa di trent'anni di attività: il CD assolve in maniera egregia a tale compito, toccando e talora superando gli altissimi livelli già raggiunti con  Fior e foa, reisc e magoa. La line-up comprende gli "storici" Fabio Chiocchetti (voce, chitarra, viola da gamba), Angela Chiocchetti (voce), Adriano Zanon (flauti, clarinetto) e Lorenzo Galbusera (contrabbasso), cui si aggiungono, come nel precedente CD, Davide Monti (violino), Margherita Dal Cortivo (violoncello) e Gabriele Micheli (spinetta), fino alle novità costituite da Maria Cleary (arpa) e dal figlio di Angela, Biju Vadagnini (flauti). Vi sono poi vari altri partecipanti, più occasionali ma comunque preziosi.
L poet e la vivana è concettualmente una riflessione - dai toni spesso amari - su Natura e Cultura, due ambiti forse in rapporto conflittuale, tuttavia accomunati dall'essere entrambi violentati dalla cecità dell'uomo contemporaneo. Dal punto di vista musicale si permane nel solco rinascimentale e barocco già tracciato da Fior e foa, accentuandone un poco la seconda componente. Il disco si può scindere in due metà: le prime sei tracce sono più concise e immediate, le successive sei risultano più lunghe ed elaborate. Subito un bel tuffo nell'antico con l'"Ave Maria" del Minnesänger Von Wolkenstein, cui seguono tre composizioni di Chiocchetti su testi di Luciano del Garber (un po' il suo... Mogol!). Il malinconico universo del poeta trova ideale rappresentazione nelle intimistiche partiture di Fabio; straordinaria per virtuosismo e carica emozionale l'interpretazione di Angela in "En an". Uno dei pochi frangenti davvero ludici è un inedito di Luigi Canori: "Sauta soricia" ("Corri topolino"), divertissement quasi onomatopeico, lontano dal banale. Nella seconda parte del lavoro brillano sideralmente gli oltre sei minuti di "A mie pitl strument", una sorta di 'ode alla ghironda' che evoca un clima ancestrale e che poi si arricchisce ritmicamente, coinvolgendo e trascinando non poco. "L lament de le vivane" è paradigmatico nell'estrinsecare l'essenza profonda dell'opera; il pezzo approda con naturalezza allo strumentale "Pian dal bal", e qui il Fabio Chiocchetti compositore ha davvero superato se stesso, forgiando una deliziosa ballata per arpa, violino e fiati dal vago sapore celtico, che poi si tramuta in un'epica cavalcata... Da brividi! E la pelle d'oca certo non se ne va: il triste lamento di "Adio Moena" è incredibilmente ispirato, e tocca un tema condivisibilissimo, ossia l'imbruttimento estetico e l'abbrutimento morale di una Moena ormai irriconoscibile. Toccante il songwriting di Fabio, che sfrutta al meglio la spinetta e il violoncello; perfetta la drammaticità del cantato di Angela. L'incisivo pianoforte di Paolo Bernard contrassegna "Giö l scoite vosc descors"; il cerchio si chiude con un pezzo storico, lo struggente "El bast del prejonier", che mi porge il destro per le considerazioni finali.
Opera della maturità, in cui predomina la malinconia, lo sconforto derivante dalla perdita dei valori di un tempo,
L poet e la vivana vorrebbe fungere da 'testamento spirituale', da epitaffio di un viaggio adesso concluso. La speranza è che la premiata ditta "Chiocchetti Bros. & C." ci ripensi: il mondo ladino e più in generale quello musicale hanno tuttora bisogno delle loro raffinate evoluzioni.
Contatti:
Istitut Cultural Ladin.

Francesco Fabbri - marzo 2009

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