Gli Iron Maiden, insieme agli AC/DC, ai Metallica ed a pochi altri, rappresentano una sorta di tappa iniziatica obbligatoria per chiunque, teen-ager o meno, scopra di essere attratto dall'heavy metal. Attingendo a piene mani dalla grande tradizione hard di Black Sabbath, Deep Purple e simili, ma rinvigorendo la formula grazie anche all'ausilio della doppia chitarra solista, sono nati capolavori come Iron Maiden ('80), Killers ('81), The Number Of The Beast ('82) e Piece Of Mind ('83), che entrano di diritto nella storia del rock, al di là di rigide divisioni settoriali, in virtù di una tecnica rimarchevole e non pretestuosa, ma posta al servizio delle idee compositive.
La realtà odierna, purtroppo, è certamente meno esaltante: da circa dieci anni la band londinese ci ha offerto prove incerte e di alterno valore, magari contrassegnate da qualche buono spunto qua e là, ma del tutto prive dell'estro, della fantasia, della tensione positiva che animava i giorni migliori. Dopo il più che criticabile
The X Factor, in cui si coglievano in modo distinto le avvisaglie della crisi ormai imminente, con questo Virtual XI la notte si fa fonda. Paradigmatica, al riguardo, è l'iniziale Futureal, una fin troppo consueta cavalcata epica ben sostenuta, sì, dalla poderosa sezione ritmica composta dal mitragliante batterista Nicko McBrain e dal fantasioso bassista Steve Harris, però già sentita innumerevoli volte, con poche variazioni degne di nota, nei dischi precedenti: in particolare, ad essere carente in termini di originalità è l'apporto in chiave solistica della coppia di chitarristi Dave Murray - Janick Gers. Ancora più traballanti The Angel And The Gambler e The Clansman, entrambe basate su di uno scontatissimo mid-tempo; l'inserimento di parti tastieristiche (peraltro di contorno) davvero non vale a risollevarne i meriti. Per trovare una trama melodica decente, sul piano della creatività, bisogna aspettare il sesto pezzo, The Educated Fool, mentre di Don't Look To The Eyes Of A Stranger si apprezza il buon arrangiamento simil-orchestrale, alternato ad accelerazioni coinvolgenti. E' solo un'illusione, perché la conclusiva Como Estais Amigos ripiomba nell'abulia.
Un grosso problema, che merita un discorso a parte, è poi quello relativo al cantante. Rimane un mistero il motivo per il quale, dopo la fuoriuscita di Bruce Dickinson, un gruppo di tale fama abbia optato, fra tutti i possibili ed ottimi sostituti, per il connazionale Blaze Bayley, ex-Wolfsbane, dalla voce grezza e molto limitata in estensione, forse accettabile in un progetto hard-blues ma assolutamente inadatta al virtuosistico metal maideniano. Non regge l'ipotesi del presunto campanilismo britannico, vista l'attitudine cosmopolita da sempre dimostrata dalla band con infiniti, estenuanti tour mondiali.
Probabilmente dal vivo il gioco paga ancora, tuttavia i troppi anni di lavori scadenti in studio rischiano di provocare danni irreversibili in termini di prestigio, ed allora per superare l'impasse non basteranno maquillage e liposuzione. Davvero il tempo passa, e spesso è impietoso.

Francesco Fabbri - luglio 1998

(aggiornamento: pur evitando di entrare nei meriti compositivi del successivo "Brave New World", va almeno riconosciuto che il rientro del figliol prodigo Bruce Dickinson ha consentito di non perseverare oltre con Blaze Bayley...)

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