XII : Moena - Predazzo - Baita Gardoné - Predazzo - Ospedale di Cavalese
(in mountain bike e... in ambulanza)

Sì, avete letto bene: ecco la gita nella quale ho patito l'infortunio più serio. La cosa, peraltro, si è rivelata essere un po' meno grave del previsto, anche se indubbiamente ha finito col condizionare, ma solo in parte, il prosieguo della mia attività escursionistica del 2004. A distanza di quattro mesi dal fatto, il ricordo complessivo di quella giornata non può prescindere dall'incidente, e questo è ovvio; tuttavia rammento pure di aver vissuto alcuni istanti molto piacevoli durante l'escursione. Dopo tre giorni consecutivi di grande impegno psicofisico, rappresentati dall'Alta Via "Federspiel", la pedalata fino al Passo San Pellegrino e la ferrata "Gadotti", sarebbe stato logico prendermi una pausa di riposo. Purtroppo, però, l'indomani sarei dovuto nuovamente restare a casa perché avevo fissato un'ora di Internet presso la biblioteca di Moena, e i regolamenti assurdi stabiliti quest'anno consentono di poter utilizzare tale servizio solo su prenotazione. Dicendo questo, evidentemente non voglio affermare che la causa del mio infortunio vada attribuita al nuovo, bislacco regolamento della biblioteca: sarei ridicolo a sostenerlo. Però non c'è dubbio che, nella mia decisione di non concedermi il giorno di riposo, in grossa misura abbia pesato quell'ora di Internet, ormai fissata da più di una settimana. Quando, alla mattina, mi alzo e guardo fuori dalla finestra, vedo un cielo poco allettante. Il corpo è stanco e mi invia imperiosi inviti a lasciarlo in pace, almeno per oggi. Rimango incerto sul da farsi per parecchio tempo, durante il quale mi lavo, mi vesto e faccio colazione. Scruto nuovamente le condizioni meteorologiche e, dopo tanto rimuginare, alla fine prendo la decisione... sbagliata. Opto di fare una breve gita in mountain bike, con diversi punti di riparo in caso di maltempo e, comunque, con la possibilità di un rapido rientro. La mèta è la zona del Gardoné, bella conca prativa alle pendici del Latemar. Inforco la bici e mi immetto sulla Statale, in direzione Predazzo: 10 km in leggera, costante discesa, presentando 200 metri di dislivello per una pendenza media, quindi, di circa il 2%. In questo tratto riesco abitualmente a tenere un media di 35-40 km all'ora, con punte di circa 43 (va considerato che ho una mountain bike, non una bici da corsa), ma oggi capisco subito che non è giornata, perché mi tengo 2-3 km all'ora sotto quelle cifre. Smanetto sul cambio, però non riesco mai a far mulinare le gambe come vorrei. All'altezza dello Stadio per il Salto dai Trampolini, sulla destra si stacca una sterrata che, con andamento quasi pianeggiante, in poco tempo conduce in località Fol, alle porte di Predazzo. Qui comincia l'ascesa per la Baita Gardoné. Nel 2001, salendo con la cabinovia, vedevo sotto di me questa strada larga e dal fondo regolare, e avevo stimato che fosse una buona idea per una escursione in mountain bike. Un particolare, però, mi aveva sempre fatto riflettere: come mai, in nessun dépliant in mio possesso, veniva consigliato quell'itinerario?... Il motivo è semplice, e lo stesso Cristian Zorzi, quando ci siamo incontrati venti giorni dopo, me lo ha confermato: è un percorso "molto ripido". E se lo dice lui, un campione internazionale di sci di fondo abituato ad allenarsi anche con la mountain bike, immaginatevi voi che impatto possa esserci stato su un comune mortale come il sottoscritto! All'inizio, a dire il vero, non mi trovo in grande difficoltà: la pendenza è subito micidiale, questo sì, tuttavia c'è ancora l'asfalto e ciò mi permette di procedere a bassa velocità e senza intoppi. Le cose cambiano quando comincia lo sterrato. Devo cercare di aumentare leggermente il ritmo se voglio restare in equilibrio, ma non è facile: l'erta è continua, non c'è né un tornante, né una curva! Capisco che è più saggio cominciare a fare delle... "pause strategiche", ammirando la colorata vegetazione circostante e ascoltando il piacevole borbottio del Rio Gardoné, che solca la valle. Il tratto centrale della salita per un po' mi illude, presentando alcuni tornanti nei quali la pendenza si mitiga, ma la speranza è di breve durata: l'ascesa torna impietosamente a farsi sentire. Alcuni tratti sono talmente ripidi che, onde permettere alle jeep dei rifugi di non slittare, sono stati infissi dei ciottoli sul fondo stradale. In tali punti è assolutamente impossibile pedalare, e mi rassegno a scendere e spingere. La riserva di energie va esaurendosi in modo rapido, e attendo come la manna dal cielo di intravedere la zona dei rifugi. Malgrado non ci sia il sole e non faccia caldo, ho la maglietta inzuppata di sudore. Tengo duro, e alla fine ci sono: come un'apparizione celestiale, ecco i tetti! Arrivo a destinazione - lo devo riconoscere - completamente cotto. Quanto questo abbia influito sull'incidente in discesa, è difficile stabilirlo; forse, di riflesso, può aver avuto la sua importanza. Guardo la cartina, la confronto  col contachilometri e ne ricavo qualche dato interessante. La salita in sé è durata meno di 5 km, con un dislivello di oltre 600 metri. La pendenza media è dunque stata superiore al 12%, con tratti che, secondo me, oscillavano fra il "molto difficile" e l'"impossibile"... Fa piuttosto freddo, e prima di mettermi comodamente seduto provvedo a togliermi i vestiti sudati. Mi imbacucco nella tuta, poi, finalmente, posso riposarmi sull'erba. Mi sento soddisfatto e in pace col mondo; perfino il consueto contorno di famiglie schiamazzanti (al Gardoné, come detto, si arriva in cabinovia) quest'oggi non mi infastidisce. Il cielo è sempre grigio ma non c'è rischio di temporali imminenti: dunque mangio con calma, godendomi l'amenità dei boschi che mi circondano, sovrastati dal crinale del Doss Capel e della Pelenzana da una parte, e del Cavignon e del Feudo dall'altra. Anche dopo che ho ripreso le forze, indugio nel guardarmi intorno e immortalare le baite, ben inserite nel paesaggio naturale. Il ritorno, penso io, sarà breve: perché aver fretta, allora? Sulla sinistra, poco lontano dalla zona degli impianti, c'è la vecchia Malga Gardoné, splendidamente addobbata con variopinti fiori. Scatto altre foto, dopodiché comincio a pensare al rientro.

La Baita Gardoné

Il Rio Gardoné

La bella e caratteristica Malga Gardoné

Sul terrazzo panoramico della Baita Gardoné

Sono già trascorse due ore e mezzo da quando ho smesso di pedalare, per cui credo di aver ormai recuperato le energie e mi sento tranquillo e rilassato. Forse troppo... Ho appena iniziato la discesa, e quasi subito succede il fattaccio. In un tratto ripidissimo, questo sì, ma privo di curve e con buono sterrato, a un certo punto la ruota anteriore si mette di traverso. Il tutto succede poi in un attimo: vengo disarcionato dal mezzo e, molto pericolosamente, catapultato in avanti. Come si può capire, da allora ho ripensato più volte a quel momento, alla ricerca di una spiegazione possibile circa la meccanica della caduta. Ebbene, non sono riuscito a darmi una risposta univoca. Il fatto che io sia finito col corpo in avanti significa principalmente che avevo mal distribuito il peso sulla bici, e in questo caso potrei dire di aver commesso il più banale degli errori, in quanto anche il biker alle prime armi sa benissimo che, in discesa, bisogna caricare la ruota posteriore spostando all'indietro il sedere e, con esso, il baricentro del corpo, tanto più se la pendenza è notevole. E' una regola elementare che non ho mai trascurato di seguire, prova ne sia che, prima d'ora, dal lontano 1988 (anno in cui ho iniziato ad andare in mountain-bike) non ero caduto neppure una volta, e credo che ciò sia già un piccolo record, data la pericolosità di questo sport. Altre possibili concause, sulle quali però non posso giurare perché non ricordo con nitidezza i momenti precedenti alla caduta, potrebbero essere un uso repentino dei freni, una piccola irregolarità del terreno con conseguente sbilanciamento, l'aver dato un'occhiata di troppo al panorama, la non perfetta reattività e mobilità muscolare per via del freddo, la concentrazione non ancora 'a regime' visto che avevo cominciato la discesa da appena 50 metri... Quale di questi motivi? Uno solo? O più di uno? Chissà; una cosa, invece, è certa: per fortuna non avevo abbandonato quella solita prudenza che mi invita ad andare sempre molto adagio in discesa, ed è solamente grazie a tale accortezza che l'incidente non ha avuto esiti drammatici. La caduta, come dicevo, è rovinosissima: a faccia in avanti, in un tratto con pendenza valutabile intorno al 20%! D'istinto, ho un buon riflesso: porto avanti le braccia e, perlomeno, evito di battere la testa. Se non ci fossi riuscito, forse non sarei più qui a raccontarlo... L'impatto col terreno è comunque molto violento. Il braccio sinistro è costretto ad assorbire gran parte dell'energia cinetica; poi "atterro" con la coscia sinistra, il ginocchio destro e la caviglia destra. Grazie alla bassa velocità, riesco a non rotolare su me stesso e mi fermo quasi subito. Sono lucido e in breve mi rialzo, ma non faccio neppure in tempo a controllare le ferite sulle gambe che mi accorgo immediatamente di un problema ben più grave: non piego il gomito sinistro! Una tastata mi basta a rendermi conto che l'articolazione è inutilizzabile, dato che le ossa si sono spostate nella parte alta del braccio. Un moto di sgomento si impossessa di me, e un brivido di sudore freddo mi attraversa il corpo. Intorno non c'è nessuno. Cerco di restare calmo e, razionalmente, penso a come risolvere il problema. Riesco a togliermi lo zaino dalla schiena e afferro il cellulare. Avverto a casa circa il mio infortunio, poi, a piedi, risalgo quei pochi metri che avevo percorso in discesa e torno nella zona dei rifugi. C'è un operaio che sta lavorando in un edificio: gli spiego la situazione e lui, gentilissimo, cerca di tranquillizzarmi e dice che è meglio farmi scendere in cabinovia, perché il trasporto in jeep sarebbe più lento. Abbandona subito quello che sta facendo e mi carica sul suo fuoristrada, portandomi alla stazione di partenza dell'impianto. Con una solerzia davvero ammirevole, un gestore mi fa addirittura accomodare su una sedia a rotelle! "Grazie, ma non ce n'è bisogno: posso camminare", dico io. "Stia pure seduto, è meglio così", mi risponde, spingendomi poi dentro una cabina che sta scendendo. Mi sembrano eterni i minuti che mi separano dall'arrivo a valle. Il dolore al gomito non è obiettivamente così intenso ma, se provo a fare qualsiasi movimento, le ossa 'viaggiano' libere: una sensazione sgradevolissima. Quando sono alla stazione in basso presso i trampolini, c'è subito un addetto pronto a tirarmi fuori. Vengo informato che l'ambulanza arriverà di lì a poco. Intanto rivedo anche la bici: qualcuno dell'impianto aveva avuto la buona idea di caricarla su un'altra cabina. Chiedo se mi possono fare la cortesia di trattenermela per un po', e vengo accontentato. Dopo breve tempo, ecco l'ambulanza. Ne escono due persone che, con cautela, mi sfilano la giacca della tuta, e c'è subito la conferma dei fatti: il gomito è vistosamente scomposto. Salgo dentro con le mie gambe, e mi viene fatto tenere sulla parte lesa un panetto di ghiaccio. Le gambe sono tutte insanguinate a causa delle escoriazioni: così, prima di partire, si provvede a medicarmele. Poi andiamo verso l'Ospedale Civile di Cavalese. Comincio a sentirmi intimamente agitato. Le stranezze e le contraddizioni fanno parte dell'essere umano, si sa; tuttavia io meriterei... approfonditi studi: non mi fa paura il camminare per ore e ore, in piena solitudine, in ambienti inospitali, e la fatica che devo durare è per me gioia; non mi spaventa l'esposizione sul vuoto, beninteso con le dovute prudenze del caso; però nutro una vera idiosincrasia per medici e ospedali, e in particolare non azzardatevi a parlarmi di iniezioni! Immerso in cotanti pensieri, mi ritrovo - mio malgrado - all'ospedale di Cavalese. Vengo 'sbarcato' e portato all'accettazione del Pronto Soccorso, dove mi prendono i dati. Suscito la meraviglia dell'infermiera perché ricordo a memoria il numero della mia tessera sanitaria, ma non quello del cellulare (che non uso quasi mai)! Mi trasferiscono su un letto a rotelle e mi portano in Ortopedia. Arriva un giovane medico, il dottor Fossataro, che qui ringrazio per come ha saputo ben gestire il mio infortunio. Il suo approccio è molto simpatico e informale: "Ciao, come ti chiami?". "Francesco". "Piacere, io sono Massimo". Mi palpa il gomito, poi mi chiede se ho male al polso o se, al contrario, posso muoverlo. Faccio dei tentativi, e vedo che almeno lì non ci sono danni. Dopo qualche altra tastata, il dottore mi dice: "Per me è solo una lussazione del gomito. Ora facciamo delle lastre per verificarlo". Il radiologo mi fa due 'fotografie', dopodiché il dottor Fossataro ritorna con la bella notizia: "E' come pensavo, il gomito è lussato ma non c'è frattura. Non ti preoccupare, perché lo rimettiamo a posto subito". Mi sento immensamente sollevato, tant'è che riesco a sopportare bene il cospicuo dolore della mossa successiva. Con una mano il medico mi tira in su l'avambraccio, facendo resistenza con l'altra sua mano sulla parte interna del mio gomito. Ma dopo circa un minuto di tentativi, purtroppo ulna e radio sono sempre fuori sede. Allora il dottore chiama un rinforzo, e si mettono in due a tirare nelle opposte direzioni. Il dolore è notevole, e mi fa emettere qualche sordo grugnito. A parte il braccio tenuto fermo, tutto il resto del mio corpo, sdraiato sul lettino, si contorce continuamente: a un certo punto mi ritrovo le gambe piegate all'altezza del petto! Ma per fortuna la tortura non dura ancora molto, perché all'improvviso tutti avvertiamo un distinto "TLOK!". All'unisono, io e il dottor Fossataro esclamiamo: "E' andato!". Di botto smetto di irrigidire i muscoli, e il medico, dopo aver osservato il nuovo profilo del gomito, dà l'ordine di farmi altre due radiografie. Rimango da solo per una decina di minuti, poi il dottore rientra con l'esito delle lastre che si rivela rassicurante. Mi chiede se sento già meno dolore, e glielo confermo; ovviamente su tutta l'area del trauma è visibile un grosso ematoma e ho le dita informicolate, ma lui mi dice che è normale. E' tuttavia necessario immobilizzare l'arto, e vengo quindi spostato in un'altra stanza. Qui il medico provvede ad applicarmi una doccia gessata, che dovrò tenere per una ventina di giorni. Il braccio mi viene bloccato dal polso fin sotto l'ascella: capisco subito che dovrò dire addio, in questo prosieguo di estate moenese, a pedalate e ferrate... Ciliegina sulla torta, entra un altro dottore che dice a un'infermiera di somministrarmi un anticoagulante. ORRORE, SI TRATTA DI UNA PUNTURA! Protesto decisamente, ma il medico dice che è una precauzione necessaria per prevenire una possibile trombosi; dopo un po' l'infermiera taglia corto: "Su, meno storie!". La fellona mi solleva di scatto la maglietta e sforacchia impietosamente la mia preziosissima pancia. Fra tutte le avversità patite oggi, questa è stata certo la peggiore!! :-) Mi viene detto che dovrò farmene una al giorno, finché non mi toglieranno il gesso, ma io subito penso, fra me e me: "Col cazzo!". E, infatti, nel corso della convalescenza sostituirò tali karakiri con normalissime aspirine, altrettanto efficaci e soprattutto da prendere per bocca... Poi vengo dimesso. Esco dall'ospedale sulle mie gambe, ma a ogni passo, anche se cammino adagio, provo dolore al gomito. Mi sento un po' avvilito e mi chiedo se sarò costretto a non far assolutamente nulla per le prossime settimane. Per fortuna tale sconforto sarà di breve durata e ben presto riuscirò a tornare in gita, come potete leggere nei prossimi resoconti. Come concludere questa narrazione? Innanzitutto con un invito alla prudenza rivolto ai bikers. Credetemi, io prima d'ora mi ritenevo invulnerabile o quasi, e invece per una banale svista mi sono fatto male e ho rischiato di farmi... peggio. Rimanete sempre concentrati, non sottovalutate le pendenze, i terreni infidi e la stanchezza. Non spingetevi al di là delle vostre capacità tecniche e moderate la velocità. Andando piano si può recuperare un errore di assetto e non cadere; se anche non ci si riesce, le conseguenze saranno comunque meno drammatiche, come insegna la mia esperienza. Ma soprattutto usate il casco: io non lo possedevo, ma adesso me lo sono comprato e da qui in avanti sarà un mio compagno insostituibile, perché la bandana da sola temo che protegga poco dagli urti... Infine alcuni doverosi ringraziamenti: a mio cognato Marco, che mi è venuto a prendere in macchina a Cavalese per riportarmi a Moena, tornando subito dopo a Predazzo a recuperare la mountain bike; poi a mia mamma, mia sorella e il mio nipotino Simone per la compagnia in ospedale. Ribadisco la grande riconoscenza verso il dottor Fossataro, che con calma e grande perizia mi ha rimesso a posto l'articolazione, che adesso è perfettamente guarita. Infine è giusto che io esprima la più sentita gratitudine verso tutto il personale degli impianti di risalita "Latemar 2000", coinvolto nella mia brutta avventura. E' vero, nei miei 'racconti montanari' di solito non sono tenero nei confronti di funivie, seggiovie ecc., ma in questo caso devo riconoscere che senza il prezioso contributo della cabinovia, e di chi la gestisce, sarebbe stato tutto molto più complicato. Intendendo sdebitarmi in qualche modo, appena tolto il gesso mi ero subito recato in macchina alla stazione a valle per pagare regolarmente quella 'corsa di emergenza', ma mi è stato detto di lasciar perdere, e che per loro la cosa più importante era sapere che adesso io stessi bene. Allora doppiamente grazie, "Latemar 2000"!

[Dolomiti 2004]