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Sono già trascorse due ore e mezzo da quando ho smesso di pedalare, per cui credo di aver ormai recuperato le energie e mi sento tranquillo e rilassato. Forse troppo... Ho appena iniziato la discesa, e quasi subito succede il fattaccio. In un tratto ripidissimo, questo sì, ma privo di curve e con buono sterrato, a un certo punto la ruota anteriore si mette di traverso. Il tutto succede poi in un attimo: vengo disarcionato dal mezzo e, molto pericolosamente, catapultato in avanti. Come si può capire, da allora ho ripensato più volte a quel momento, alla ricerca di una spiegazione possibile circa la meccanica della caduta. Ebbene, non sono riuscito a darmi una risposta univoca. Il fatto che io sia finito col corpo in avanti significa principalmente che avevo mal distribuito il peso sulla bici, e in questo caso potrei dire di aver commesso il più banale degli errori, in quanto anche il biker alle prime armi sa benissimo che, in discesa, bisogna caricare la ruota posteriore spostando all'indietro il sedere e, con esso, il baricentro del corpo, tanto più se la pendenza è notevole. E' una regola elementare che non ho mai trascurato di seguire, prova ne sia che, prima d'ora, dal lontano 1988 (anno in cui ho iniziato ad andare in mountain-bike) non ero caduto neppure una volta, e credo che ciò sia già un piccolo record, data la pericolosità di questo sport. Altre possibili concause, sulle quali però non posso giurare perché non ricordo con nitidezza i momenti precedenti alla caduta, potrebbero essere un uso repentino dei freni, una piccola irregolarità del terreno con conseguente sbilanciamento, l'aver dato un'occhiata di troppo al panorama, la non perfetta reattività e mobilità muscolare per via del freddo, la concentrazione non ancora 'a regime' visto che avevo cominciato la discesa da appena 50 metri... Quale di questi motivi? Uno solo? O più di uno? Chissà; una cosa, invece, è certa: per fortuna non avevo abbandonato quella solita prudenza che mi invita ad andare sempre molto adagio in discesa, ed è solamente grazie a tale accortezza che l'incidente non ha avuto esiti drammatici. La caduta, come dicevo, è rovinosissima: a faccia in avanti, in un tratto con pendenza valutabile intorno al 20%! D'istinto, ho un buon riflesso: porto avanti le braccia e, perlomeno, evito di battere la testa. Se non ci fossi riuscito, forse non sarei più qui a raccontarlo... L'impatto col terreno è comunque molto violento. Il braccio sinistro è costretto ad assorbire gran parte dell'energia cinetica; poi "atterro" con la coscia sinistra, il ginocchio destro e la caviglia destra. Grazie alla bassa velocità, riesco a non rotolare su me stesso e mi fermo quasi subito. Sono lucido e in breve mi rialzo, ma non faccio neppure in tempo a controllare le ferite sulle gambe che mi accorgo immediatamente di un problema ben più grave: non piego il gomito sinistro! Una tastata mi basta a rendermi conto che l'articolazione è inutilizzabile, dato che le ossa si sono spostate nella parte alta del braccio. Un moto di sgomento si impossessa di me, e un brivido di sudore freddo mi attraversa il corpo. Intorno non c'è nessuno. Cerco di restare calmo e, razionalmente, penso a come risolvere il problema. Riesco a togliermi lo zaino dalla schiena e afferro il cellulare. Avverto a casa circa il mio infortunio, poi, a piedi, risalgo quei pochi metri che avevo percorso in discesa e torno nella zona dei rifugi. C'è un operaio che sta lavorando in un edificio: gli spiego la situazione e lui, gentilissimo, cerca di tranquillizzarmi e dice che è meglio farmi scendere in cabinovia, perché il trasporto in jeep sarebbe più lento. Abbandona subito quello che sta facendo e mi carica sul suo fuoristrada, portandomi alla stazione di partenza dell'impianto. Con una solerzia davvero ammirevole, un gestore mi fa addirittura accomodare su una sedia a rotelle! "Grazie, ma non ce n'è bisogno: posso camminare", dico io. "Stia pure seduto, è meglio così", mi risponde, spingendomi poi dentro una cabina che sta scendendo. Mi sembrano eterni i minuti che mi separano dall'arrivo a valle. Il dolore al gomito non è obiettivamente così intenso ma, se provo a fare qualsiasi movimento, le ossa 'viaggiano' libere: una sensazione sgradevolissima. Quando sono alla stazione in basso presso i trampolini, c'è subito un addetto pronto a tirarmi fuori. Vengo informato che l'ambulanza arriverà di lì a poco. Intanto rivedo anche la bici: qualcuno dell'impianto aveva avuto la buona idea di caricarla su un'altra cabina. Chiedo se mi possono fare la cortesia di trattenermela per un po', e vengo accontentato. Dopo breve tempo, ecco l'ambulanza. Ne escono due persone che, con cautela, mi sfilano la giacca della tuta, e c'è subito la conferma dei fatti: il gomito è vistosamente scomposto. Salgo dentro con le mie gambe, e mi viene fatto tenere sulla parte lesa un panetto di ghiaccio. Le gambe sono tutte insanguinate a causa delle escoriazioni: così, prima di partire, si provvede a medicarmele. Poi andiamo verso l'Ospedale Civile di Cavalese. Comincio a sentirmi intimamente agitato. Le stranezze e le contraddizioni fanno parte dell'essere umano, si sa; tuttavia io meriterei... approfonditi studi: non mi fa paura il camminare per ore e ore, in piena solitudine, in ambienti inospitali, e la fatica che devo durare è per me gioia; non mi spaventa l'esposizione sul vuoto, beninteso con le dovute prudenze del caso; però nutro una vera idiosincrasia per medici e ospedali, e in particolare non azzardatevi a parlarmi di iniezioni! Immerso in cotanti pensieri, mi ritrovo - mio malgrado - all'ospedale di Cavalese. Vengo 'sbarcato' e portato all'accettazione del Pronto Soccorso, dove mi prendono i dati. Suscito la meraviglia dell'infermiera perché ricordo a memoria il numero della mia tessera sanitaria, ma non quello del cellulare (che non uso quasi mai)! Mi trasferiscono su un letto a rotelle e mi portano in Ortopedia. Arriva un giovane medico, il dottor Fossataro, che qui ringrazio per come ha saputo ben gestire il mio infortunio. Il suo approccio è molto simpatico e informale: "Ciao, come ti chiami?". "Francesco". "Piacere, io sono Massimo". Mi palpa il gomito, poi mi chiede se ho male al polso o se, al contrario, posso muoverlo. Faccio dei tentativi, e vedo che almeno lì non ci sono danni. Dopo qualche altra tastata, il dottore mi dice: "Per me è solo una lussazione del gomito. Ora facciamo delle lastre per verificarlo". Il radiologo mi fa due 'fotografie', dopodiché il dottor Fossataro ritorna con la bella notizia: "E' come pensavo, il gomito è lussato ma non c'è frattura. Non ti preoccupare, perché lo rimettiamo a posto subito". Mi sento immensamente sollevato, tant'è che riesco a sopportare bene il cospicuo dolore della mossa successiva. Con una mano il medico mi tira in su l'avambraccio, facendo resistenza con l'altra sua mano sulla parte interna del mio gomito. Ma dopo circa un minuto di tentativi, purtroppo ulna e radio sono sempre fuori sede. Allora il dottore chiama un rinforzo, e si mettono in due a tirare nelle opposte direzioni. Il dolore è notevole, e mi fa emettere qualche sordo grugnito. A parte il braccio tenuto fermo, tutto il resto del mio corpo, sdraiato sul lettino, si contorce continuamente: a un certo punto mi ritrovo le gambe piegate all'altezza del petto! Ma per fortuna la tortura non dura ancora molto, perché all'improvviso tutti avvertiamo un distinto "TLOK!". All'unisono, io e il dottor Fossataro esclamiamo: "E' andato!". Di botto smetto di irrigidire i muscoli, e il medico, dopo aver osservato il nuovo profilo del gomito, dà l'ordine di farmi altre due radiografie. Rimango da solo per una decina di minuti, poi il dottore rientra con l'esito delle lastre che si rivela rassicurante. Mi chiede se sento già meno dolore, e glielo confermo; ovviamente su tutta l'area del trauma è visibile un grosso ematoma e ho le dita informicolate, ma lui mi dice che è normale. E' tuttavia necessario immobilizzare l'arto, e vengo quindi spostato in un'altra stanza. Qui il medico provvede ad applicarmi una doccia gessata, che dovrò tenere per una ventina di giorni. Il braccio mi viene bloccato dal polso fin sotto l'ascella: capisco subito che dovrò dire addio, in questo prosieguo di estate moenese, a pedalate e ferrate... Ciliegina sulla torta, entra un altro dottore che dice a un'infermiera di somministrarmi un anticoagulante. ORRORE, SI TRATTA DI UNA PUNTURA! Protesto decisamente, ma il medico dice che è una precauzione necessaria per prevenire una possibile trombosi; dopo un po' l'infermiera taglia corto: "Su, meno storie!". La fellona mi solleva di scatto la maglietta e sforacchia impietosamente la mia preziosissima pancia. Fra tutte le avversità patite oggi, questa è stata certo la peggiore!! :-) Mi viene detto che dovrò farmene una al giorno, finché non mi toglieranno il gesso, ma io subito penso, fra me e me: "Col cazzo!". E, infatti, nel corso della convalescenza sostituirò tali karakiri con normalissime aspirine, altrettanto efficaci e soprattutto da prendere per bocca... Poi vengo dimesso. Esco dall'ospedale sulle mie gambe, ma a ogni passo, anche se cammino adagio, provo dolore al gomito. Mi sento un po' avvilito e mi chiedo se sarò costretto a non far assolutamente nulla per le prossime settimane. Per fortuna tale sconforto sarà di breve durata e ben presto riuscirò a tornare in gita, come potete leggere nei prossimi resoconti. Come concludere questa narrazione? Innanzitutto con un invito alla prudenza rivolto ai bikers. Credetemi, io prima d'ora mi ritenevo invulnerabile o quasi, e invece per una banale svista mi sono fatto male e ho rischiato di farmi... peggio. Rimanete sempre concentrati, non sottovalutate le pendenze, i terreni infidi e la stanchezza. Non spingetevi al di là delle vostre capacità tecniche e moderate la velocità. Andando piano si può recuperare un errore di assetto e non cadere; se anche non ci si riesce, le conseguenze saranno comunque meno drammatiche, come insegna la mia esperienza. Ma soprattutto usate il casco: io non lo possedevo, ma adesso me lo sono comprato e da qui in avanti sarà un mio compagno insostituibile, perché la bandana da sola temo che protegga poco dagli urti... Infine alcuni doverosi ringraziamenti: a mio cognato Marco, che mi è venuto a prendere in macchina a Cavalese per riportarmi a Moena, tornando subito dopo a Predazzo a recuperare la mountain bike; poi a mia mamma, mia sorella e il mio nipotino Simone per la compagnia in ospedale. Ribadisco la grande riconoscenza verso il dottor Fossataro, che con calma e grande perizia mi ha rimesso a posto l'articolazione, che adesso è perfettamente guarita. Infine è giusto che io esprima la più sentita gratitudine verso tutto il personale degli impianti di risalita "Latemar 2000", coinvolto nella mia brutta avventura. E' vero, nei miei 'racconti montanari' di solito non sono tenero nei confronti di funivie, seggiovie ecc., ma in questo caso devo riconoscere che senza il prezioso contributo della cabinovia, e di chi la gestisce, sarebbe stato tutto molto più complicato. Intendendo sdebitarmi in qualche modo, appena tolto il gesso mi ero subito recato in macchina alla stazione a valle per pagare regolarmente quella 'corsa di emergenza', ma mi è stato detto di lasciar perdere, e che per loro la cosa più importante era sapere che adesso io stessi bene. Allora doppiamente grazie, "Latemar 2000"!
[Dolomiti 2004]
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