I: Malga Crocefisso - Rifugio Vallaccia - Sas Morin - Rifugio Vallaccia - La Costella -
Cima Malinverno - Ciadin Burt - La Costella - Rifugio Vallaccia - Malga Crocefisso
(a piedi)

Sono ormai cinque giorni che mi trovo a Moena, ma il tempo si è mantenuto costantemente brutto. Ho una voglia matta di "rompere il ghiaccio" con le gite, così approfitto di una mattina in cui mi sembra di scorgere un po' di sereno per partire. Lascio la macchina in Val San Nicolò, presso la Malga Crocefisso, e mi incammino lungo la Val Monzoni. Le bianche spume dell'omonimo rio accompagnano il mio procedere; mi sento bene e la consapevolezza che, fra un po', potrò finalmente avventurarmi sulle alte creste mi dona entusiasmo e mi fa tenere un passo spedito. Alla mia destra si staglia, via via con maggiore nitidezza, l'ampio bastione del Sas Morin, mentre a sinistra i prati sono punteggiati da belle baite e dominati dalle scure rocce dei Monzoni.

Il Rio Monzoni

Una baita e i prati della Val Monzoni
nella radente luce del mattino

In un'ora e dieci minuti "brucio" i 750 metri di dislivello che mi portano al Rifugio Vallaccia, da dove posso abbordare il Sas Morin, l'ultima vetta escursionistica che ancora mi manca nel gruppo della Vallaccia. L'ascensione, a dire il vero, è piuttosto breve, ma richiede attenzione. Dal rifugio devo puntare a nord, per poi lasciarmi sulla destra le rocce verticali che vanno aggirate. Mi ritrovo così sul versante opposto della montagna: un camoscio, poco sotto di me, mi vede all'improvviso e istintivamente si mette a soffiare, prima di darsela a gambe con grande velocità. Il percorso prevede adesso una cengia non difficile, ma abbastanza esposta, che mi permette di guadagnare con rapidità la larga cima. Guardo l'orologio: dal rifugio sono stati necessari appena venti minuti. Sono felice per la prima vetta dell'estate, e il panorama che mi si offre è notevole, dalla vicina Punta Vallaccia alla Marmolada, al Sella e al Sassolungo, questi ultimi due gruppi con le cuspidi imbiancate. Purtroppo il tempo sta peggiorando in fretta, per cui, scattate le foto di prammatica, ritorno sui miei passi.

In vetta al Sas Morin; sullo sfondo i gruppi del Sassolungo e del Sella

Le labili tracce che avevo trovato salendo non mi sembrano più tanto evidenti, e sono costretto a fare alcuni tentativi a vuoto prima di imboccare la cengia giusta per la discesa. Il fatto che il luogo non venga quasi mai battuto è testimoniato dalle molte marmotte che incontro; con cautela ripercorro i passaggi dell'andata, e in poco tempo sono al Rifugio Vallaccia. La mia gita, così come l'avevo pianificata a tavolino, prevederebbe ora di raggiungere la Cima Malinverno dall'altro versante rispetto a quello da me già affrontato l'anno scorso, percorrendo così l'ultimo tratto dell'"Alta Via Bruno Federspiel", quello più insidioso in quanto sprovvisto di infissi di sicurezza. Mi sento bene fisicamente e per nulla stanco, ma le condizioni meteorologiche non sono affatto allettanti. Ben si comprende come mi si affacci l'amletico interrogativo: continuare o soprassedere? Per ora non piove, così decido intanto di raggiungere La Costella, ossia il valico presso il quale c'è l'attacco della suddetta via. Arrivo ai 2500 metri del passo, e dal cielo, sempre più scuro, cadono alcune gocce. Che fare? Indugio qualche minuto, e ne approfitto per indossare il casco. Smette di piovere e c'è una debole schiarita: mi azzardo a partire. La targa metallica con su scritto "percorso impegnativo" mi dà la conferma di essere sul giusto tracciato. I primi metri sono abbastanza elementari, ma ben presto le cose cambiano in modo drastico: la cresta si riduce sensibilmente in termini di larghezza, e anche il fondo risulta molto insidioso, alternando malsicure roccette coperte di ghiaie a striminzite cornici erbose. Nulla di inabbordabile dal punto di vista tecnico, però è necessario stare costantemente all'erta: c'è una grossa esposizione sul lato sud, e devo evitare anche la più piccola scivolata. Laddove percepisco più forte l'esigenza di non perdere l'equilibrio, non esito ad abbassare il baricentro e ad avanzare quasi carponi, schiena o ventre al terreno a seconda dei casi, con le braccia in appoggio laterale.

Un tratto roccioso lungo l'Alta Via
Federspiel; alle mie spalle la Cima Malinverno

Un passaggio orizzontale insidioso
e molto esposto su terreno misto

Tutt'intorno un grande silenzio e la solitudine più completa, particolarmente ovvia in una giornata dal tempo così incerto. Il luogo è davvero selvaggio, e questo mi incute un misto di ammirazione e di rispettoso timore. Vado avanti lentamente e con prudenza, e mi avvicino sempre più all'appuntita Cima Malinverno. Per raggiungerla, però, devo prima scendere a una forcelletta per un ripido pendio, lungo il quale mi abbranco letteralmente ai ciuffi d'erba, e poi risalire il fianco successivo. E' questo il tratto più verticale e impegnativo, su un terreno misto di roccia e vegetazione: sono stati posti dei chiodi di sicurezza, ma incredibilmente manca la fune metallica che li collega. "E' una vera fortuna che io debba affrontare questi passaggi in salita, e non viceversa...", penso fra me e me intanto che arrampico, sfruttando spesso e volentieri i chiodi come appigli per le mani. Ma ormai ce l'ho fatta, e mi ritrovo ai 2630 metri della seconda vetta della giornata. Mi guardo indietro, e... accidenti quant'è affilata la cresta dei Monzoni che ho appena percorso!

Su Cima Malinverno

La sottile cresta dei Monzoni che ho traversato

Dall'inizio della gita sono passate quattro ore, ed è tempo che io mi fermi per una giusta pausa, durante la quale ne approfitto per rifocillarmi. La sosta, tuttavia, è forzatamente breve: dai sempre più neri nuvoloni sta cadendo una pioggerellina sottile ma insistente. Capisco che, malgrado non vi siano fulmini, è prudente non rimanere in cima altro tempo. Per il ritorno scendo sull'altro versante di Cima Malinverno, quello che già conoscevo avendolo percorso un anno fa. Il crinale guida giù nel Ciadin Burt, che stavolta, con simili condizioni atmosferiche, mi appare effettivamente un po' lugubre. Tale sensazione è acuita quando rinvengo il grosso cranio di un animale, forse un bovino o un caprino.

Il grosso cranio di animale che ho rinvenuto nel Ciadin Burt

Non sto a pensarci troppo, anche perché la pioggia sta aumentando di intensità, e faccio bene a muovermi per non freddare i muscoli. Assecondo il Ciadin Burt in tutta la sua lunghezza, poi, quando alla mia destra scorgo in alto La Costella, faticosamente riprendo a salire per i prati. Malgrado io abbia l'ombrello aperto già da un bel po', sento che l'umidità mi sta entrando dentro dappertutto. Cavo fuori le energie residue e raggiungo La Costella, dove posso tirare il fiato anche dal punto di vista psicologico: le difficoltà sono terminate e, da qui in avanti, sarà solo discesa su normale sentiero. Posso concentrarmi sulla variopinta flora che fa capolino tra i sassi: nigritelle, non-ti-scordar-di-me e margherite gialle offrono una bella varietà di colori, pur nella slavata luce di quest'oggi. Poco sotto il Rifugio Vallaccia finalmente smette di piovere, e posso riporre il mio ombrello tascabile. Gli scarponi sono ormai fradici e anche i piedi, al loro interno, non  possono più dirsi asciutti, dunque cerco di chiudere la gita prima possibile, e quando arrivo alla Malga Crocefisso sono trascorse otto ore dall'inizio dell'escursione. Concludendo: itinerario appagante, ma rigorosamente per escursionisti esperti, sia per quanto riguarda il Sas Morin, sia - a maggior ragione - per quanto concerne il tratto dell'Alta Via Federspiel che va da La Costella a Cima Malinverno, esposto e non attrezzato. Dal momento che la stessa Cima Malinverno è assai più tranquillamente abbordabile dalla Forcella Ricoletta, scendendo poi, come detto, nel Ciadin Burt, si può anche considerare il suddetto tratto dell'Alta Via come una pignoleria per... 'collezionisti completisti', almeno finché non verranno posti quegli auspicabili infissi di sicurezza che attualmente mancano.

[Dolomiti 2005]