XVI: Lago di Paneveggio - Palù dei Mùgheri - Costa Crosèra -
Castel - Valon - Palù dei Mùgheri - Lago di Paneveggio
(a piedi)

"Un percorso nascosto come la vita degli scoiattoli, ma con il brivido dell'orientamento perché la parte centrale della salita è invasa da rami recisi, ceppaie ed erbe alte": così recita il libretto escursionistico distribuito in Val di Fiemme a proposito di questo itinerario. Visti i miei trascorsi del 2004, ben poco incoraggianti laddove i sentieri erano mal segnalati o comunque poco evidenti, forse sarebbe stato logico lasciar perdere una gita così aleatoria, ma in questo magico 2005 sento di poter affrontare anche questa singolare sfida. Del resto l'escursione in sé non si prospetta lunga o tecnicamente pericolosa, per cui mi decido e parto. Poco prima delle 10 lascio la macchina al parcheggio dei Pùlesi, presso la sponda est del Lago di Paneveggio, e imbocco la panoramica strada forestale che costeggia a sud quasi tutto il lago. Lungo questo pianeggiante trasferimento ho modo di ammirare i bei giochi di luce sulla superficie dell'acqua, che comunque non è così abbondante: sulla sabbia delle rive si distinguono bene i vari anelli dovuti al progressivo abbassamento del livello. Difficile dire se ciò sia dovuto a contingenti manovre della chiusa della diga (il lago è infatti artificiale), oppure se sia riconducibile all'ahimè generalizzata riduzione delle acque dolci cui stiamo assistendo un po' dappertutto.

Il Lago di Paneveggio in due diverse angolazioni e momenti della giornata: mattino e pomeriggio

Dal lungolago entro poi nel Palù dei Mùgheri: mi trovo nel cuore del Parco Naturale di Paneveggio, immerso in un'affascinante, fitta boscaglia di conifere centenarie. Vi sono diversi incroci di strade forestali, per cui tengo costantemente il libretto in mano per essere sicuro di non sbagliare. Passato il Rio del Valon, ai due successivi bivi seguo le indicazioni prima per il Baito del Stuet, poi per la Costa Crosèra. Adesso la pendenza si fa più decisa, e pian piano il panorama si apre sui verdi pascoli di Cima Viezzena, dal lato opposto della Val Travignolo. Continuo a salire lungo la Costa Crosèra scrutando il bosco alla mia destra in attesa di vedere l'inizio del sentiero che dovrebbe portarmi in vetta al Castel, ma non noto alcuna traccia. Sto ormai camminando da molto tempo, e un'occhiata all'altimetro mi fa capire che avrei già dovuto scorgere il bivio per la cima, la quale è peraltro invisibile da qui a causa dell'alta vegetazione. "C'è qualcosa che non va", rifletto grattandomi la testa, con logico disappunto. Ma ecco il colpo di fortuna: poco lontano da me mi accorgo di un boscaiolo che ha finito il suo turno di lavoro e sta riponendo gli ultimi attrezzi dentro la sua jeep. Lo raggiungo e gli chiedo lumi, e lui mi risponde che ho già superato il bivio per il Castel. "Ma come?... Ho guardato bene, ma non ho visto nessun sentiero...". Lui mi spiega che, di fatto, un sentiero vero e proprio non esiste: c'è solo un'esile traccia all'inizio, che solo chi è pratico della zona può individuare. Gentilissimo, si offre di darmi un passaggio per riportarmi indietro al 'punto fatidico'. Lentamente percorriamo in giù la carrareccia per alcune centinaia di metri scrutando il bosco, ma non notiamo alcunché. "Eppure sono sicuro che era da queste parti...", dice lui. "Anzi, dovremmo essere già troppo avanti!", aggiunge: gira il suo fuoristrada e torniamo in su. Alla fine riesce a scoprire quello che cercavo, e mi indica una labilissima traccia, assolutamente non segnalata, che sale ripida nel bosco. Ringrazio calorosamente il boscaiolo per l'altruismo dimostrato, scusandomi del tempo che gli ho fatto perdere. Posso così ripartire, ma prima mi ricordo di controllare sul mio altimetro la quota esatta di questo luogo, particolare che, come vedremo, si rivelerà importantissimo. Imbocco la traccia che fa alcune curve per rimontare una ripida scarpata, ma ben presto succede quello che temevo: sul pianoro sovrastante il tutto si perde in un dedalo di rami recisi. Posso solo seguire il pendio puntando verso l'alto, ma sempre senza alcuna possibilità di vedere la fantomatica vetta verso cui sono diretto! Ogni tanto credo di ritrovare un abbozzo di sentiero, ma si tratta di qualche estemporaneo brandello di traccia che inevitabilmente scompare dopo pochi metri in mezzo all'erba alta.

L'inizio del "sentiero" per il Castel

Le tracce si perdono in mezzo all'erba alta

Fra alte conifere e rami recisi, è un vero labirinto!

Non resta che affidarmi all'intuito e all'esperienza: con la testa verso l'alto, esamino di continuo le cime degli alberi per cercare di capire dove non c'è l'azzurro del cielo, e dunque dove il pendio prosegue. Il mio camminare non è speditissimo a causa del fondo malagevole, ma, giunto ai 2000 metri, ho finalmente la consapevolezza di avercela fatta: il cielo sopra gli alberi è dappertutto abbondante, segno che la sommità non è lontana. Più in alto il bosco termina all'improvviso e la vetta è ormai lì, a portata di mano! Passo davanti a una vecchia baita in totale stato di abbandono. Ancora qualche minuto in mezzo all'erba alta, poi mi ritrovo in vetta al Castel, a quota 2164 (una piccola precisazione: questa cima non va confusa col Castel delle Aie, ubicato sopra il Rifugio Cauriol e dunque da tutt'altra parte). Il dislivello dal fondovalle è stato di 700 metri e quindi non così cospicuo; però le tre ore e mezzo che ho impiegato sono state intense e soprattutto avventurose... Con tutta calma posso ora riposarmi e mangiare, confortato da condizioni meteorologiche variabili ma con regolari, ampi squarci di sereno. Recuperate le forze, esploro la zona della vetta. Noto così che il Castel è dirupato su tre lati, e che l'unico comodo accesso è quello da nord, che io ho seguito. Manco a dirlo, sono completamente solo e il silenzio è meravigliosamente perfetto: l'unico, gradevole rumore che odo è lo scroscio di una delle tante sorgenti che scendono dalle vicine vette del crinale principale dei Lagorai. Infatti il luogo dove adesso mi trovo rappresenta un ottimo punto di osservazione per una zona ben poco battuta di questa catena: Cima Valbona, Cima Valon e Coston di Slavaci; più a est si notano le Cime di Bragarolo, quelle di Ceremana e il Colbricon, mentre a ovest è evidente il lungo costone che, dalla Cima di Sella, si innalza fino alla Cima di Cece, la maggiore elevazione dei Lagorai. Se invece mi giro su me stesso, dietro al boscoso Monte Mulat e all'erbosa Cima Viezzena lo sguardo spazia fino alle Pale di San Martino, al Latemar e al Catinaccio.

In vetta al Castel.
A sinistra la Cima di Sella

Roccia a picco in vetta al Castel.
Sullo sfondo il Latemar

Contemplo tutto ciò e anche alcuni alberi scheletriti, antichi testimoni di chissà quante battaglie atmosferiche. Dopo un'ora abbondante di sosta riparto. Come prevedibile, il voler seguire esattamente lo stesso percorso dell'andata si rivela ben presto una pia illusione: finché sono in campo aperto orientarmi è facile, ma poi, nel folto del bosco, perdo quasi subito ogni punto di riferimento. Tutte le ceppaie, tutti i rami tagliati, tutte le radure con erba alta mi paiono uguali! Il fatto è che non posso puntare a casaccio verso il basso: il prosieguo del mio itinerario presuppone che io ritrovi la strada forestale della Costa Crosèra laddove l'avevo abbandonata... Di nuovo mi affido a quei mozziconi di sentiero che ogni tanto incontro, scendendo a zig-zag nel bosco senza però obliquare in maniera eccessiva in un senso o nell'altro. Nel contempo consulto frequentemente il mio altimetro, per essere certo di non perdere troppa quota o, al contrario, di non perderne troppo poca. Con un sospiro di sollievo, alla fine osservo che, sotto di me, c'è la carrareccia che cercavo: un'ultima occhiata all'altimetro per capire il punto in cui devo incrociarla, quindi la raggiungo. Ebbene, con un'approssimazione di poche decine di metri mi ritrovo proprio al punto di partenza indicatomi quella mattina dal boscaiolo! "Incredibile... stavolta sono stato davvero bravo!", mi permetto di autocongratularmi con me stesso. Da lì devo attraversare la strada forestale e seguire un'altra traccia - stavolta più evidente - che scende nel bosco a est fino a incrociare un'altra carrareccia, ossia quella che costeggia il Rio del Valon. Da qui in avanti non ho più problemi di orientamento, per cui posso dedicarmi a osservare il prezioso sottobosco che mi circonda. Parecchi sono i funghi che trovo, sia velenosi che commestibili; ci sono anche alcuni porcini, di cui uno davvero gigantesco! Però non posso raccoglierli: come detto sono nel Parco Naturale di Paneveggio, e la raccolta di funghi è totalmente vietata. Mi limito dunque a fotografarli.

La commestibile Amanita vaginata

La velenosa ma stupenda Amanita muscaria

Il gigantesco esemplare di porcino (Boletus edulis)!

Avvisto un cervo nella foresta, ma appena mi vede corre a nascondersi. Raggiunto in discesa il Palù dei Mùgheri, mi è sufficiente girare a destra e ricosteggiare il Lago di Paneveggio per chiudere la mia gita intorno alle sei del pomeriggio. Leggendo l'indomani il quotidiano "L'Adige", scoprirò che un gruppo di tre escursionisti si era perso nelle Buse dell'Or, a poca distanza dal luogo dove io mi trovavo in quelle stesse ore. Ebbene, sfiniti e impauriti, alla sera i tre avevano addirittura chiamato il soccorso alpino che, con tanto di elicottero e unità cinofile, alla fine li ha tratti in salvo. Tutto ciò è sì servito ad aumentare la mia autostima per ciò che io invece sono riuscito a fare, ma francamente non so se consigliare anche a voi questa gita. E, in ogni caso, presto provvederò ad attaccarmi dietro lo zaino o sul fondoschiena uno di quegli adesivi che si vedono sulle automobili, con su scritto: "Non seguitemi, mi sono perso anch'io"...

[Dolomiti 2005]