Al vero cultore della buona musica il nome di Arturo Stalteri non può in alcun modo giungere nuovo. Nel corso degli anni '70, infatti, il suo pianismo fresco e moderno donò imprescindibili peculiarità ai due dischi realizzati dai Pierrot Lunaire (l'esordio omonimo del '74 e "Gudrun" del '77), forse il gruppo più originale fra quelli sorti nella 'seconda ondata' del pop italiano. Dopo tale esperienza, Stalteri ha iniziato una carriera solistica che lo ha progressivamente portato ad approfondire certe tematiche a lui care, nelle quali la classicità del Novecento si contamina con altri stilemi come la new age e la world music.
"Rings" costituisce una personalissima rilettura dell'opera di Tolkien: si tratta di un concept album le cui idee melodiche vengono via via riprese e modificate, permanendo sempre nell'alveo di una dignitosa sobrietà del tutto priva di smargiassate da supermercato. Fin dalle iniziali "Baggins' Theme" e "Bilbo's Party" emerge il prezioso ed intrigante minimalismo di Stalteri, che in questo disco si coniuga alla perfezione con le arie celtiche suggerite dagli altri strumenti quali il violino, la ghironda, i flauti e il cromorno. Di una bellezza struggente è la nymaniana "Gandalf the White": l'impareggiabile voce dell'ospite Jenny Sorrenti e il malinconico cello giocano un ruolo importante nell'evocare la giusta atmosfera. Il viaggio prosegue con l'incredibile fascino di "Rivendell" e le sue circolari soavità, che non potranno dispiacere a chi amato il debutto dei Pierrot Lunaire. Fondamentali sono poi gli undici minuti e mezzo de "Le Ultime Luci di Brea": bellissima la trama pianistica di Stalteri, solo in apparenza semplice ma in realtà ricca sia di studio che di emotività, tanto che si rimane coinvolti e trascinati in un vero mondo incantato. New age?... Forse, ma solo perifericamente; certo è musica che ha in sé il potere di rilassare, di comporre i dissidi dell'anima dell'ascoltatore. Talune coordinate classico-contemporanee sono fatte proprie e riadattate, un po' come in Einaudi, mentre "Fangorn" e "Cavalieri Neri" si aprono di più a singolari dissonanze. Ci si riplaca con i morbidi vortici di "Lo Specchio di Galadriel", ipnotici nel loro trasmettere sensazioni di pace universale, prima della cupa epicità di "The Old Forest". Quantomai vari gli otto minuti di "Théoden e i Ricordi": nuovamente siamo rapiti nei caleidoscopici gorghi della più profonda essenza stalteriana, e chiudono in bellezza la nostalgica "Verso Lórien" (ancora con la Sorrenti), l'avvincente cavalcata di "The Ride of the Rohirrim" e le prelibate delicatezze di "The Grey Havens' Lullaby". Completa il CD una sezione multimediale con tre bonus tracks.
Costantemente elegante, questo lavoro ha il pregio di rivelarsi opera matura e soprattutto
corale: ancorché le redini compositive siano quasi sempre nelle mani di Stalteri, dal punto di vista esecutivo l'apporto di Yasue Ito, Laura Pierazzuoli  e Stefano Pogelli risulta senz'altro importante; in più, forse sono state definitivamente abbattute le barriere fra la musica 'colta' e quella di estrazione più 'popolare'. Dunque "Rings" è, per chi scrive, il capolavoro dell'artista romano: merita conoscerlo.

Francesco Fabbri - settembre 2003

Perdonami, Arturo, ma in un sito che parla di progressive non posso non chiederti qualcosa a proposito dei Pierrot Lunaire. Quando ebbi modo di conoscerti, mi parevi quasi imbarazzato vedendo il disco omonimo nelle mie mani. Soggiungesti infatti: "Beh, il tipo di musica che propongo adesso è molto lontano da quello stile...". A me sembra che questo sia vero in relazione, appunto, a "Pierrot Lunaire", mentre "Gudrun" è già più vicino ai tuoi moduli espressivi attuali. Sei d'accordo?
"Assolutamente sì! "Gudrun" è un disco a cui sono molto legato, fu realizzato in un periodo di grande serenità e di straordinario affiatamento tra me e Gaio. Inoltre l'arrivo di Jacqueline Darby portò linfa nuova ai Pierrot Lunaire, umana e musicale. Forse qualcosa di quelle atmosfere è ancora presente nella mia musica di oggi."
Ad ogni buon conto, ritengo "Pierrot Lunaire" un album affascinante proprio nella sua apparente semplicità, e un pezzo come lo strumentale "Ouverture XV" è davvero magnifico. Cosa puoi dirmi della genesi di quella traccia? E comunque, c'è ancora oggi qualcosa che ti piace di quel debutto?
""Ouverture XV" fu uno dei primi brani che Gaio mi fece ascoltare e mi piacque immediatamente. Ben prima dell'incisione del primo lavoro, quando ancora ci chiamavamo Printemps, la suonavamo in una versione piuttosto rock! Ma, in verità, non ho un bel ricordo di quel primo disco, l'atmosfera era molto tesa e non sono particolarmente soddisfatto del risultato..."
Esaminando il prosieguo delle vostre rispettive carriere artistiche, mi sono fatto l'idea che nei Pierrot Lunaire convivessero due tendenze predominanti: una più melodica, legata a Gaio Chiocchio, ed una più sperimentale, dovuta a te. E' forse per questo che ad un certo punto ognuno ha preferito proseguire per la sua strada?...
"Non direi che Gaio fosse il più melodico e io il più sperimentale, anzi, forse è vero il contrario. Ad un certo punto ci separammo perché io volevo dedicarmi a tempo pieno allo studio della musica classica e al pianoforte come strumento solista, autonomo. Infatti nel 1979 mi diplomai, incisi "André sulla luna" e per un po' di anni mi dedicai quasi esclusivamente al repertorio classico."
So che purtroppo Gaio Chiocchio da qualche anno non è più con noi. A cosa fu dovuta la sua prematura dipartita?
"Gaio ha avuto un infarto in una torrida estate di alcuni anni fa..."
A proposito del concerto che hai tenuto a Firenze alla libreria City Lights qualche anno fa (tournée di "Circles"), oltre all'aspetto puramente musicale dell'evento io ho molto apprezzato anche le introduzioni che tu facevi prima di ogni pezzo, spiegandone caratteristiche, particolarità in chiave di arrangiamento e quant'altro. Dato che tu sei anche un quotato critico musicale (Radiotre, Radio Vaticana ecc.), puoi senz'altro rispondermi con competenza su un argomento che mi sta molto a cuore. Non credi anche tu che troppa gente si ritrovi ad ascoltare solo spazzatura a causa della propria mancanza di cultura a livello musicale? Cos'è che secondo te impedisce un vero insegnamento della musica nelle scuole?
"Io credo che il motivo per cui questo è un paese di incolti dal punto di vista musicale è da imputare in parte ai governi passati e presenti (nessuno escluso) che hanno tollerato o favorito l'ignoranza nei vari campi della cultura, complici i mezzi di informazione da sempre asserviti ad una strategia di disimpegno (non tutti, ma soprattutto quelli che contano, purtroppo). Inoltre non c'è dubbio che la maggior parte degli italiani ha evidentemente poco rispetto di sé, dal momento che si nutre di mediocrità... anche perché non è così tremendamente difficile trovare qualcosa di meglio da ascoltare, se lo si vuole fare: basta cercare. Io ricordo sempre che quando passai in terza media mi chiesero di scegliere tra l'educazione fisica e l'educazione musicale (nel senso che una disciplina escludeva l'altra), io naturalmente scelsi la musica, anche se già suonavo da sette anni... Ebbene, in tutta la mia classe, composta da trentaquattro alunni, fummo solo in due a scegliere la musica. Questo la dice lunga..."
Semplice la domanda, difficile (forse) la risposta: com'è che definiresti il minimalismo e l'ambient? Perché questi stili musicali ti attraggono così tanto?
"Il minimalismo mi affascina per questa sua matematica semplicità, così legata anche all'aspetto magico della musica, mi piace la sua lineare economia di mezzi... ottenere il massimo con il minimo... La ambient music rappresenta una diversa dimensione sonora, un paesaggio nel quale immergersi. In questo senso trovo paradigmatico "On Land" di Brian Eno, da lui stesso definito un vero e proprio "luogo fisico". Ascoltando il disco sembra di compiere un vero e proprio spostamento nello spazio, fino al raggiungimento di una meta."
Nel tuo primo disco da solista, "André sulla luna", il minimalismo spesso e volentieri si estrinseca con sonorità elettroniche. Per caso Terry Riley era fra i tuoi ascolti preferiti, in quel periodo?
"In quegli anni ascoltavo molto Riley, Glass e Reich, ma per Terry Riley avevo in effetti una vera e propria predilezione."
Veniamo al tuo recente, bellissimo "Rings". Da dove ti è nata l'idea di un concept su Tolkien? Sei per caso un appassionato di saghe fantasy?
"E' dal 1974 che volevo mettere in musica la Trilogia! Ho impiegato qualche anno... Amo la letteratura fantastica in generale, anche se credo che "Il signore degli anelli" sia un libro molto 'reale'."
Nella mia recensione di "Rings" ho scritto che di questo lavoro è da apprezzare la compenetrazione del modulo minimale con quello celtico, e che ciò avviene con una notevole coralità espressiva. Ho detto bene? Ci sono altre peculiarità dell'opera che vorresti qui sottolineare?
"La tua analisi è perfetta: in più trovo che ci sia anche un po' di progressive. Ad esempio, "Cavalieri neri" è stata scritta nel 1979! Inoltre ci sono due canzoni… questa è una novità."
Per definire certe tue sfumature compositive e/o esecutive spesso si parla anche di new age. Ricordo che Florian Fricke dei Popol Vuh non amava affatto essere inserito in quel calderone, per lui evidentemente troppo spesso ripieno solo di corrive dozzinalità. Tu provi il medesimo fastidio oppure accetti di buon grado anche tale etichetta?
"All'inizio il termine 'new age' non mi dispiaceva, il problema è che la definizione è talmente ampia e aperta da aver incorporato nel tempo miriadi di mediocri musicisti che ne hanno danneggiato l'immagine! Ora mi infastidisce notevolmente..."
Talvolta mi capita di leggere che quel certo tuo disco sarebbe il più minimale, quell'altro il più etnico, quell'altro ancora il più new age. Personalmente non rilevo poi tutti questi stacchi così netti all'interno del tuo percorso artistico, il quale ha piuttosto seguito, negli anni, una graduale e logica evoluzione...
"Sono d'accordo."
Tu hai comunque frequentato anche alcuni giri "che contano", ad esempio suonando o curando gli arrangiamenti per Mario Castelnuovo, Grazia Di Michele, Amedeo Minghi. Che idea ti sei fatto di quel "carrozzone"?
"Un'idea pessima! A parte pochissime persone di valore, è veramente un carrozzone dove regnano la presunzione più becera e una profonda ignoranza in campo musicale."
Concludiamo con alcune curiosità. Ma quanti anni hai? Nelle foto sembri sempre un ragazzo; hai per caso qualche segreto? Pratichi degli sport? Segui una particolare alimentazione? Oppure ancora ti servi di tecniche e/o filosofie per rilassarti, così da poter eseguire quelle reiterazioni che il minimalismo prevede senza uscirne pazzo?... :-)
"Vado a nuotare tre volte alla settimana e pratico il training autogeno, adoro il Natale, i Rolling Stones e Totò. Cerco di mantenere vivo quel senso di affascinato stupore che mi accompagnava da bambino. Per quanto riguarda la mia età, ho anni a sufficienza per poter festeggiare, l'anno prossimo, il trentennale della mia attività discografica..."

Francesco Fabbri

Dopo un lungo periodo di irreperibilità sul mercato discografico, torna finalmente disponibile "... E Il Pavone Parlò Alla Luna", l'opera seconda di Arturo Stalteri che, all'epoca, ebbe una gestazione parecchio diluita nel tempo: le registrazioni risalgono al 1980-81, il missaggio all'83, mentre per vederne la stampa su LP si dovette attendere il 1987.
"Certo è un disco nato in un momento particolare (due mesi in India lasciano il segno!)": in questa confidenza che mi ha fatto lo stesso Stalteri è racchiusa al meglio la peculiarità del lavoro, che più di altre creazioni del pianista romano pare concedere molto a tematiche sonore orientali, beninteso filtrate attraverso l'impareggiabile sensibilità del Nostro. La breve, ma già significativa intro di "Morceau", prelude ai 17 minuti di "Raga Occidentale", dove fin dal titolo è espressa la compenetrazione fra stilemi nostrani e fragranze levantine: su un tappeto di harmonium indiano, con sottofondo di tabla, il pianoforte declama minimalismi contemporanei che via via si tramutano in trame schizoidi, quasi improvvisate. Stalteri sembra dunque alla ricerca della Verità, musicale e non; questa ansia conoscitiva può dunque esprimersi in forma urgente e tumultuosa, e altresì placarsi, risolversi in serenità e compostezza, come si rileva nella tenue batteria elettronica della seconda parte, su cui ricama il flauto dell'ospite Dante Majorana: tale gioco interiore è esemplificato dalle due poesie riportate sul digipack, scritte appunto in India. Geniale è l'ambient di "Goa Di Fronte All'Oceano", con essenziali giri di organo assai prossimi alle atmosfere di Roedelius: qui pare aprirsi lo stupore, fors'anche la gioia al cospetto delle meraviglie del Creato; altra traccia 'acquatica' è poi "La Pescatrice di Perle", contrassegnata dai liquidi ondeggiamenti del Farfisa e dell'Arp Solus che placano lo spirito. L'unico vero frangente in cui viene concesso spazio alla melodia, nell'accezione dell'orecchiabilità e della cantabilità, è posto in fondo al disco: l'organo e la chitarra acustica di "Nel Palazzo Dei Venti" edificano un insieme a suo modo sontuoso, epico e solenne.
Di tutto l'iter discografico di Stalteri, questo è forse il passaggio più ostico, che necessita di svariati ascolti e immedesimazioni interiori per essere compreso e assimilato appieno. Ma una volta penetratone l'esclusivo universo, non si potrà che rimanere soddisfatti.

Francesco Fabbri - dicembre 2004

Anche l'Italia ha il suo Anthony Phillips. I frammenti racchiusi in "Early Rings", per definizione dello stesso Stalteri, sono "piccoli studi, idee musicali spesso improvvisate, melodie accennate...". Dunque un qualcosa che può ricordare il modus operandi dell'ex-Genesis, quando si dedica alla solitaria saga dei "Private Parts & Pieces". D'altronde tale dimensione da sempre si confà al musicista romano, che ogni tanto esce allo scoperto per donarci la sua splendida musica, nel contempo misurata e pregna di magnificenza.
"Early Rings" è un insieme di registrazioni casalinghe inedite, databili 1974 e 1975 e oggi restaurate: cronologicamente alcune di esse precedono, altre seguono "Pierrot Lunaire", l'indimenticabile debutto del gruppo omonimo. L'elemento che accomuna le quindici tracce è la profonda fascinazione subìta da Stalteri dopo la prima lettura de "Il Signore degli Anelli", un'opera che lo ha segnato nel profondo tanto da dedicargli il più recente "Rings", come già sappiamo. Così eterogenei eppure così logici, gli abbozzi di "Early Rings" si pongono nel solco di certa avanguardia settantista, vedi Bo Hansson, contaminata da vari elementi. Di norma i pezzi non superano i 2-3 minuti, ma i propositi che ne scaturiscono sono ugualmente significativi. Preponderante è quell'effettistica elettronica che caratterizzerà anche il debutto ufficiale di Stalteri, "André sulla luna" (1979); accanto a questa, però, si scorgono con agevolezza altre influenze, tutte segnalate dal Nostro nel libretto (oltre che grande musicista, Stalteri è pure eminente critico, financo di se stesso). Non si può fare a meno di pensare a Mike Oldfield laddove sono le soavi e tenere acusticità della chitarra e del flauto a prendere il sopravvento, magari stratificandosi via via ("From Hobbiton to the Land of Shadow"), o sottolineando con garbo l'aspetto ritmico ("Lothlórien"). Altrove si rilevano veloci assoli emersoniani che testimoniano una tecnica già soddisfacente: i cinque minuti e mezzo di "The Old Forest - Tom Bombadil - Goldberry" racchiudono questo e altro, ad esempio le suggestioni
kraut dettate dal Farfisa, o ancora un break meditativo/rinascimentale; altrettanto probante, in tale contesto virtuosistico, è "The Riders of Rohan". Logicamente a convincere di più sono le composizioni che, grazie al maggior minutaggio, hanno l'opportunità di strutturarsi in forma adeguata; segnaliamo allora le cupe armonie di "The Mines of Moria", che tratteggiano un dark sperimentale eppure 'commestibile', addirittura seducente. Ben sviluppata anche la trama melodica di "The Grey Havens", con un bell'effetto "a spirale" che è del resto una delle precipue caratteristiche di Stalteri. Assolutamente da decantare sono le due bonus tracks per pianoforte, risalenti al 2004. "Before the Ordeal" è una deliziosa e perfetta cascata di note minimali: inchiodano alla poltrona gli echi malinconici, vagamente à la Nyman. Con la complicità esecutiva del violinista Yasue Ito (già in "Rings"), Stalteri si appropria in ultimo di "After the Ordeal", genesisiana cover (da "Selling England by the Pound") che include anche un accenno di "Firth of Fifth", e lo fa con grande tatto e intelligenza.
Rivolgetevi ad Arturo Stalteri: non importa se il vecchio o il nuovo, ma vi consiglio entrambi. Scoprirete un universo sonoro affascinante decantato da un artista vero, lontano anni luce dai troppi guitti senz'anima che infestano il panorama musicale odierno.

Francesco Fabbri - gennaio 2006

A differenza di altri suoi recenti lavori, per questa nuova release Arturo Stalteri sceglie la strada della perfetta solitudine, acquarellando undici quadri in cui l'essenza profonda della sua Arte trova ancora una volta una magica estrinsecazione. Il pianista romano si rivela talmente abile a livello compositivo e così perfetto nella dimensione esecutiva che non si avverte mai la mancanza di qualcosa: segno evidente che il work in progress è stato condotto in maniera ottimale.
In questi dieci Notturni, più un'Alba, alberga pertanto il meglio dello Stalteri-musicista e dello Stalteri-uomo, da sempre imbevuto di molteplici influenze che poi vengono riplasmate e trasfigurate dalle sue sapienti mani. I primi due Notturni, pur brevi, fanno emergere già alcuni punti chiave, sotto forma di sofisticate, malinconiche circolarità che riconducono a Satie, mentre nel "Notturno in Re Maggiore" emerge una briosa varietà, altamente seducente nel suo virtuosismo. Gli oltre 9 minuti di "Venezia" sono semplicemente bellissimi, un fantastico connubio di minimalismo e romanticismo, cesellato con un sapiente bilancino. Le ammalianti spire del "Notturno in Si Bemolle Maggiore" convergono in un finale quasi epico, ed è di grande classe anche "Starry Night", con quelle
onde (vedi Einaudi) capaci di cullare e di far sognare... Spettacolari i gorghi nymaniani del "Notturno in Si Bemolle Minore", con un'eccellente alternanza di ritmi e di umori, anche se l'apogeo assoluto è forse raggiunto nel quarto d'ora di  "Malga Costa", la cui prima esecuzione risale al 1998 per la rassegna "I Suoni delle Dolomiti". E infatti pare proprio di avvertire il picchiettio della pioggia sulle finestre di un rifugio di montagna, e la ricchissima varietà tematica sembra esprimere in musica il tripudio della natura, in tutta la multiformità della sua essenza... Meraviglioso! In "Sun Rises" si risveglia il giorno e le tinte si fanno talora più rilassate e solari (appunto), pur nella trama oltremodo complicata. Laddove credevi di aver capito tutto, a mescolare le carte giunge l'inattesa ghost-track nel finale, un elettronico saggio di lunare/lunatico rumorismo.
Che musica quella di Stalteri, così semplice eppure così ricca... La noia non c'è mai, sempre grande è la carica emozionale, e costante è la capacità di far godere estaticamente l'ascoltatore!

Francesco Fabbri - dicembre 2006

Un concerto di Arturo Stalteri non è mai un evento come tutti gli altri. A parte l'eccellenza della musica concepita ed eseguita dal pianista romano, ciò che contraddistingue ogni sua esibizione è la dovizia di particolari con cui egli introduce ogni pezzo, rendendo partecipe l'ascoltatore della genesi, degli accostamenti storici, insomma del fascino di quanto verrà di lì a poco proposto. Ciò è importante, considerato un panorama generale in cui pressappochismo e ignoranza sono retaggi difficili da abbattere presso chi fruisce dell'arte: non è snobismo, ma la constatazione delle magagne che affliggono il 'pubblico medio', mortificato sin dall'infanzia da una didattica assolutamente non all'altezza, visto il ruolo di cenerentola da sempre riservato alla musica nelle scuole.
Ben vengano, dunque, illuminanti performances come questa, capaci di elevare spirito e conoscenza in un solo tempo. Avevo avuto modo di vedere Stalteri dal vivo un'altra volta, nella tournée di "Circles": quasi dieci anni sono trascorsi da allora, ma il Nostro ha sempre lo stesso fisico e lo stesso entusiasmo. Sono le 22 quando, presso la libreria Melbookstore nel centro di Firenze, il concerto ha inizio. A disposizione di Arturo c'è un piano elettrico Yamaha S 80: a parte il pedale "ballerino", presto ancorato al liscio pavimento con abbondanti strati di scotch, in alcune veloci scale vi saranno problemi di amplificazione che creeranno una non perfetta definizione sonora, ma nel complesso la godibilità dell'evento non ne risentirà. Quello di oggi è lo showcase dell'ultimo CD, l'ammaliante "Child of the moon". Un disco felpato, discreto, con richiami all'ovattata dimensione notturna (il sottotitolo è infatti "Dieci notturni e un'alba"), devoto il giusto verso certi grandi compositori classici del passato. Uno dopo l'altro si succedono gli splendidi temi del lavoro, che nella rappresentazione live mi emozionano particolarmente grazie alla magistrale e puntuale interpretazione. Stalteri è prezioso quando suona e quando racconta se stesso, la sua naturale predilezione verso la notte, la sua ammirazione per Chopin e Schubert che possono aver costituito magari una reminiscenza al momento di comporre "Child of the moon", anche se, come lui sottolinea, più da un punto di vista interiore che non nella risultanza pratica. Compreso il bis, viene proposto l'intero CD, eccezion fatta (purtroppo, ma c'erano difficoltà logistiche in tal senso) per il "Notturno in fa diesis maggiore", ovvero la suite eseguita a Malga Costa per "I suoni delle Dolomiti".
Al termine dell'esibizione si apre il dibattito. Propongo ad Arturo una mia riflessione: dal rock progressivo dei Pierrot Lunaire, alla sua carriera solistica che ha attraversato elettronica, minimalismo, new age, folk celtico, classica contemporanea e quant'altro, il comune denominatore è forse costituito da un romanticismo di fondo che rende peculiari le sue composizioni. Lui si riconosce in questa analisi e precisa che, suonando il pianoforte sin dall'età di sei anni, gli è stato naturale assorbire una vasta gamma di influenze, dai compositori classici che ovviamente hanno costituito la base dei suoi studi, fino al rock dei Rolling Stones. A esprimere questa multiformità è pure il suo look: sotto la giacca scura porta infatti la t-shirt con la famosa linguaccia di Jagger & soci! Aggiunge poi che il suo stesso temperamento lo porta a essere inquieto, talora impetuoso nel frangente creativo, differenziandosi in questo da altri colleghi come Ludovico Einaudi o Giovanni Allevi. Tento allora una provocazione: a mio modesto parere, la sua musica si pone su un gradino più alto rispetto ai due nomi succitati, che pure sono gratificati da più ampi riconoscimenti di pubblico... Stalteri non glissa, ma anzi replica con intelligenza: dopo aver premesso che non spetta certo a lui fare classifiche di merito, afferma di essere amico di Einaudi, che ha comunque un carattere diverso dal suo, più pacato e 'ascetico', e ciò si riflette nelle sue composizioni, che risultano più semplici e fruibili. Quanto ad Allevi, giudica eccessivo il clamore sviluppatosi intorno alla sua figura, e l'ultimo disco è per lui inferiore alla precedente produzione. Riconosce tuttavia ad Allevi di aver aperto una breccia interessante e positiva nel mercato 'normale'. Dal pubblico giunge una domanda circa il pianoforte utilizzato per l'incisione di "Child of the moon". Arturo spiega di aver suonato un Fazioli, strumento che necessita di un certo tempo prima di entrarci in confidenza per trarne il massimo: l'opposto, per intenderci, di quanto avviene con l'assai più duttile Steinway, ma alla fine le sonorità estrapolate col Fazioli lo hanno pienamente convinto.
Una serata quantomai istruttiva, e non poteva essere altrimenti: la statura (anche fisica!...) dell'Arturo Stalteri-uomo è notevole, al pari di quella del compositore, dell'esecutore e del musicologo. Onore al merito!

Francesco Fabbri - marzo 2007

Dopo il solitario percorso affrontato col precedente "Child of the Moon", ecco che Stalteri ritorna a una dimensione più corale con "Half Angels", lavoro composito e dalle notevoli sfaccettature anche timbriche. Infatti, accanto al Nostro che qui, piano a parte, si cimenta anche con tastiere, chitarra e bouzouki, troviamo Yasue Ito al violino, Laura Pierazzoli al violoncello e Pino Zingarelli alla batteria, percussioni, basso ed effetti vari. Nel disco emergono alla grande i molteplici aspetti della peculiare intimità di Arturo, a cavallo tra impeto e (malinconica) riflessione.
I vorticosi accenti del piano e del violoncello di "Damatria" ci conducono subito nel cuore di alcuni dei moduli esecutivi che ritroveremo anche successivamente, e fungono da ideale preludio a quello che si può considerare l'autentico punto nodale del disco, ovvero la stupenda "Selika Suite", articolata in un'intro e sei movimenti, dove Stalteri dosa tutto con sapienza e perfezione. E se l'intro può richiamare un certo Battiato sperimentale (comunque non quello più ostico di metà anni '70), nel primo e nel secondo movimento ritroviamo lo Stalteri di "André sulla luna", date le iterazioni pianistiche accompagnate da percussioni elettroniche; la melodia di tipo classico è comunque assicurata. Si prosegue con le orientaleggianti spirali - quasi new age - del terzo movimento, quindi con le carezzevoli visioni del quarto. Salgono al proscenio violino e violoncello: il quinto movimento piacerà a chi apprezza Kronos Quartet e Penguin Cafe Orchestra, mentre stupisce la ritmica sincopata dell'atto finale della suite. "Fiordiluna" è un'improvvisazione da estasi, tanto che, lasciandosi andare, pare di ritrovarsi adagiati sulle nuvole del cielo… Fra le tracce successive, si segnala la bella poesia di "Raederle", mentre "Trinity", concepita per due piani e otto (!) mani, presenta la struttura tipica di certo minimalismo: a ogni giro successivo si aggiunge qualcosa, finendo col tratteggiare una vera, intelligente avanguardia. Mi preme da ultimo invitare all'attenzione su "Galadriel": ancora una volta, dopo "Rings", "Il signore degli anelli" funge da ispirazione per Arturo, il quale edifica adesso un pezzo oscuro, epico e drammatico come forse mai gli era capitato; starei per dire dark. I lugubri accenti peraltro si smorzano nella partitura assegnata al violino.
Ancora una volta un capolavoro assoluto di Stalteri, in virtù dei chiaroscuri umorali sempre presenti: minimale nella struttura, ma… massimale nell'abilità di coinvolgere. Un ritorno al passato proiettato nel futuro.
Contatti:
www.arturostalteri.com.

Francesco Fabbri - novembre 2009

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