"Non siamo per la frantumazione dell'esperienza estetica, ma per la costruzione intorno ad un nucleo forte". Nel corso di un'intervista agli Arpia nell'ormai lontano 1995, queste le parole che mi vennero dette, con estrema tranquillità e naturalezza, da Leonardo Bonetti, erudito leader dello storico combo romano. Era appena uscito il CD "Liberazione", che segnava definitivamente la svolta stilistica verso territori più complessi e progressivi. Da allora non ci furono altre releases discografiche, per cui, pur senza un annuncio ufficiale, pensavo a una di quelle avventure giunte al capolinea per morte naturale. Una delle tante di cui l'italico underground è ahimè pieno.
A contraddire tale deduzione, ecco invece, dopo ben undici anni, il concept "TerraMare". Il tempo pare preziosamente fermato, per Bonetti, Brait e Orazi. Anzi, no. L'intento programmatico è sempre quello della citazione in apertura, ma le nuove sfaccettature che si rinvengono rendono ancor più originale e interessante il messaggio musical-letterario del gruppo. Che ora si è allargato a collaborazioni dall'esterno: la bella e incisiva voce di Paola Feraiorni e le percussioni di Tonino De Sisinno. Il CD vive di contrasti: terra-mare, uomo-donna, fisicità-spiritualità. Archetipi che da sempre dominano il mondo, e che Arpia descrive con lucida intelligenza, alternando, in musica, porzioni dirette e passaggi meditativi. Coerentemente, i testi sono sviluppati su esplicitazioni urbane ("Metrò") e rifacimenti da autori classici (Cielo d'Alcamo per "Rosa", Guido Cavalcanti per "Luminosa", Torquato Tasso per "Libera", etc.). E a ben vedere è proprio la coltezza della band, inserita nell'urgenza espressiva, a fornire il contrasto più evidente.
L'intelaiatura è ancora saldamente metal. In un progetto che vive da oltre quattro lustri, tutto sommato è lecito e normale rinvenire talune consuetudini. Ma se si pretendesse di archiviare e gettare tutto alle spalle attraverso rassicuranti categorizzazioni, si sbaglierebbe di grosso. Qualche volta le influenze sembrano palesi: l'assalto al calor bianco dell'opener "Bambina regina" ricorda i Judas Priest di "Tyrant", mentre la cadenzata "Monsieur Verdoux" si riallaccia a "Revelation" degli Iron Maiden... Ma sono solo momenti. Brevi. Perché le stranianti armonizzazioni, e le assolutamente inusuali linee vocali sono sempre, unicamente e deliziosamente Arpia. Quant'è ammaliante, da vera pelle d'oca, il Medioevo stravolto di "Rosa"! Se Branduardi facesse mai una
jam-session coi Warlord, potrebbe uscirne un qualosa di analogo. E com'è caratteristico, qui come altrove, il cantato di Leo Bonetti, in assoluto una delle voci nostrane più interessanti; ottima l'interazione con la Feraiorni. Arpia è da lodare anche per la scelta, mai rinnegata, di utilizzare l'italiano, cosa sempre alquanto difficile in ambito metal, specie in quello dark. D'altronde le oscurità proposte sono estremamente "latine" e "mediterranee": forse il termine decadenza è quello che meglio inquadra tale operato. Paradigmatica è la traccia "Mari", lenta, riflessiva, con aeree tastiere. Ma nera come la pece. Altro momento topico è quello offerto dalle pregevolissime variazioni tematiche e ritmiche di "Umbria". Grande la presa emotiva dei chiaroscuri umorali, e ottimo il funesto clima da horror-soundtrack! Non è da meno la torva tristezza, la plumbea malinconia di "Luminosa", che mi ha fatto scorrere nella mente un personale videoclip: un parco con erba alta che circonda un'antica villa ormai in rovina... Qualificanti, infine, i raffinati accenti di thrash rallentato (come i Metallica dei bei tempi) di "Contrasto della villanella"; più canonicamente doom-metal la title-track, vedi il sabbathiano riff e le linee di basso à la Butler.
Un grande ritorno per una band quadrata e determinata dal lato interiore, e assai preparata dal punto di vista tecnico. Sconsigliato ai depressi, il CD è vivamente raccomandato a chi ricerca - e non teme di provare - sensazioni forti e sincere.

Francesco Fabbri - maggio 2007

Non mi sbagliavo: Arpia è definitivamente un'entità destinata a meravigliare a ogni release; i motivi del nuovo stupore sono molteplici, ed è indispensabile analizzarli uno per uno.
"Racconto d'inverno" non è solo un disco, ma assai di più: è anche un romanzo di Leonardo Bonetti (ed. Marietti) di importanza perlomeno paritetica, tanto che non si può comprendere appieno il senso dell'uno prescindendo dall'altro. Nel libro si narrano le peripezie, mentali prima che fisiche, di un uomo che fugge dai disastri di una guerra civile - il collegamento spirituale con "Liberazione" (1995) è plausibile - approdando in un luogo che trasuda mistero. La casa, l'ambiente circostante, una nuova conoscenza: tutti elementi di un viaggio iniziatico che porterà (forse) il protagonista a un livello superiore di consapevolezza. Chi era avvezzo al Bonetti criptico ed ermetico dei testi degli Arpia si sorprenderà di quanto egli sia invece abile nel descrivere con minuzia certi paesaggi esteriori e interiori. Oltre alle dichiarate influenze di Landolfi e Tarkovskij, è secondo me agevole riscontrare una cospicua dose del nostrano, classico decadentismo, oltre che, a tratti, il gusto per l'introspezione psicanalitica simil-sveviana. Meglio, comunque, non svelare altro, per non togliere la sorpresa al lettore.
Ed eccoci, ora, al disco. Tanto era deflagrante e potente "Terramare", quanto, per contro, "Racconto d'inverno" suona acustico e intimistico. Se le armonie sono riconducibili alla matrice-Arpia, l'aver optato per una strumentazione quasi sempre
unplugged è novità non da poco. Nell'epoca del digitale, molti si vedono 'costretti' ad allungare il brodo: Arpia no. In 42 minuti è concentrato un vero florilegio di emozioni. Non meravigli il fatto che i pezzi contenuti siano ben 19: quella in esame è, in pratica, un'unica suite, tutt'altro che frammentaria e, anzi, assai logica nel suo procedere. Vero è che la prima parte dell'opera è più scarna, ma ciò è certo funzionale al prosieguo, che trova un primo acuto nel magnetismo di "Ladri e stranieri", col suo arioso, lugubre incedere: ottime le parti vocali dello stesso Bonetti e di Paola Feraiorni, già apprezzata in "Terramare". Una ritmica marziale ben scandisce il testo di "Soldati!", mentre in "Un lupo", che pone in evidenza le atmosferiche tastiere e il basso, è più facile rinvenire gli Arpia del passato prossimo, come del resto nella maestosa "Gli scantinati", solenne estrinsecazione di caducità.
In un periodo in cui tutti inseguono le effimere mode del momento o, all'opposto, restano fedeli a un tranquillizzante cliché, Leonardo Bonetti, Paola Feraiorni, Fabio Brait e Aldo Orazi dimostrano di saper innovare, sempre nel rispetto del proprio messaggio lontano dalla banalità.

Francesco Fabbri - agosto 2009

Mi sia concesso di partire non dal presente, ma dal passato prossimo, ossia da quello che, in un certo senso, si può identificare come il punto nodale del nuovo corso di Arpia: "Terramare" (2006).  Mentre dopo di esso abbiamo dovuto attendere 'solo' tre anni per avere il recente "Racconto d'inverno", per risalire alla prova discografica precedente bisogna tornare indietro addirittura di undici anni, ovvero a "Liberazione" (1995)... Cosa ha motivato un silenzio tanto lungo? Vi eravate proprio sciolti, oppure attraversavate una fase di "vita sospesa"?
"No, non ci eravamo sciolti. Ma indubbiamente alla fine dei novanta abbiamo attraversato un periodo di travaglio creativo. C'era qualcosa di cui non eravamo del tutto coscienti che ci spingeva a ricercare verso altri lidi. In fondo, il percorso che ci ha spinti a Liberazione era stato contrassegnato da una ricerca verso la "realtà", la concretezza storica. Partivamo infatti da una dimensione lirico-filosofica sperimentata nei primi demo-tape: de lusioni, Resurrezione e Metamorfosi, Bianco zero. Liberazione ha significato la scoperta della storia nella sua dimensione più piccola e drammatica, in cui l'individuo appare vittima oggettiva di una realtà incomprensibile. Su questa direttrice alla fine degli anni novanta abbiamo quindi compiuto l'ultimo passo conseguente, quello di una spersonalizzazione frutto della discesa nel reale frammentato, attualizzato nella vita sociale e nell'immaginario individuale. Nel tempo quindi della fine di ogni specificità progettuale, di ogni significato prospettico dell'esistenza e del mondo.
A cavallo del 2000 abbiamo allargato la formazione con i contributi esterni di Paola Feraiorni alla voce e Tonino De Sisinno alle percussioni, suonando molto nei locali con materiale nuovissimo, mai pubblicato su disco. E alla crisi creativa ha corrisposto quindi - paradossalmente - una produzione torrenziale. Credo infatti che in quel periodo abbiamo composto circa una ventina di pezzi nuovi. Il fatto che non siano stati ancora pubblicati ha sicuramente un significato profondo, non ancora del tutto indagato da noi stessi. Ma prima o poi dovremo fare i conti con questo "rimosso", se così si può dire."
Quanto è stato importante "Terramare" circa il porvi nuovamente in gioco?
"Terramare è uno spartiacque importantissimo. Innanzitutto per l'ufficializzazione (anche se ancora non del tutto compiuta) dell'allargamento del gruppo con la presenza "certificata" di Paola Feraiorni e Tonino De Sisinno. Quindi in una sorta di riappropriazione del destino inscritto nel progetto Arpia. Infatti si sono recuperati brani che erano stati composti molto tempo prima, a ridosso di Liberazione: "Luminosa", "Umbrìa", "Diana", "Mari" tra gli altri, innestandoli sul progetto che sempre più stava prendendo corpo, e cioè comporre una sorta di affresco sull'eros, come energia primigenia e mitica (non analitica, quindi). Siamo quindi usciti dal territorio in cui ci eravamo costretti come una sorta di bagno in linguaggi e codici non del tutto "nostri". Ricordo il dolore sottile e nello stesso tempo il senso di liberazione nel suonare brani che potevano essere paragonati a cover di canzoni mai scritte da gruppi mai esistiti. Il percorso di uscita è stato lento ma ha rappresentato, se possibile, una riappropriazione della nostra personalità e del nostro stile ancora più profonda. Così profonda che ha messo radici dappertutto. È come se avessimo murato l'albero Arpia per evitare che danneggiasse le case vicine. E che per anni avessimo raggiunto lo scopo "edificante" di spegnerne ogni movimento.
Ma a un certo punto ci siamo resi conto delle prime crepe, sottili. L'albero era ancora vivo e per fortuna aveva la forza di mettere a rischio le certezze più sedimentate. La creatività o è rischiosa o non è."
E' magari da ascrivere al gran desiderio di tornare in scena, dopo il lungo ritiro, il fatto che "Terramare" suoni così intenso, se non addirittura aggressivo?
"No. Credo più semplicemente che l'aggressività sia da ascrivere al tipo di musica che avevamo sperimentato negli anni precedenti. Il portato di quell'esperienza è infatti tutta dentro Terramare."
Veniamo al nuovo progetto, così meritevole e complesso: "Racconto d'inverno", non solo da ascoltare ma anche da leggere. A tal proposito, è ovvio che la gestazione di un libro non possa avvenire in tempi brevi, per cui ti domando: da quanto ci stavi pensando?
"Già a fine 2006 avevo in mente un progetto ben diverso. Stavo cercando di musicare un romanzo che avevo iniziato ad amare già da anni e che mi caricava di suggestioni musicali. Si trattava di
Racconto d'autunno di Tommaso Landolfi. Ho provato per due o tre mesi, infine mi sono reso conto che non ero in grado di riuscire. O che forse il romanzo si opponeva ai miei tentativi. Così ho capito all'improvviso che avrei dovuto scrivere il mio romanzo a partire da quello di Landolfi. E la cosa mi ha preso a tal punto che una prima redazione era pronta già nell'estate del 2007. Ma si trattava solo di una prima stesura sulla quale ho poi lavorato fino alla correzione delle bozze, cioè fino al marzo 2009."
Come definiresti la complementarità dell'opera? In altri termini, è nato prima il libro, prima il disco, oppure le due cose assieme?
"Non so se questo può essere un limite o un pregio, ma la realtà è che la scrittura e la composizione sono andate di pari passo quasi sin dall'inizio esaurendosi pressappoco insieme. Solo nella parte in cui ho lavorato di lima sul testo e arrangiato insieme al gruppo i due lavori hanno preso una via autonoma. Anche se non credo si possa capire appieno Racconto d'inverno se si stacca la musica dal romanzo. Per me vivono insieme. Insieme sono nati e insieme continuano ad esistere. Questo non vieta ad un lettore di privilegiare il testo o ad un ascoltatore di fare il contrario. Ma ritengo che qualcosa vada perso. In quanto Racconto d'inverno non è esclusivamente un romanzo né esclusivamente un disco."
Già in "Liberazione" avevate trattato la guerra civile; in "Racconto d'inverno" tale tematica ritorna, anche se più sullo sfondo della vicenda. Da dove sorge il tuo interesse in tal senso?
"È una vera ossessione. La resistenza, intendo. Ho l'impressione che sia un discorso sulle origini, alla fine. Insomma, se devo rappresentarmi un inizio qualsiasi, di una storia o di un discorso sull'attualità, non posso fare a meno di partire da quel periodo preciso che è il biennio '43-'45. Non che in Racconto d'inverno ci siano chiari riferimenti in tal senso. Ma è indubbio che molte suggestioni abbiano lavorato in me nella costruzione della vicenda. A cominciare dal fatto che l'incipit landolfiano, collocato storicamente proprio in quel frangente di anni, non può certo far sorgere molti dubbi a proposito.
Proprio ora sto lavorando ad un ciclo di racconti sulla resistenza, ad esempio. Già in
Liberazione poi, il riferimento alle origini della Repubblica era segnato quasi come una origine di storia collettiva, nascosta solo in superficie da una giustificazione d'occasione (il cinquantenario della Liberazione).
Ma è chiaro che la potenza d'
immagine e di lingua che sprigiona da quei fatti, filtrati ovviamente attraverso un'epica e una letteratura del periodo di cui mi sono nutrito (Fenoglio, Calvino, Pavese, Vittorini), ma anche neoespressionista (come Landolfi, Gadda, Bufalino, D'Arrigo ad esempio), fa sì che io sia quasi costretto a ritornare in modo testardo al punto ogni qual volta devo costruire un testo di tipo narrativo. Non è un caso che con Liberazione abbiamo scoperto la storia "grande" attraverso le storie "piccole" manzonianamente intese. E che di lì ci siamo avventurati anche alla scoperta di una realtà più vicina, ma sempre socialmente interessata, con un progetto che, come ti dicevo, non ha visto ancora la luce ma che potrebbe essere uno dei prossimi lavori del gruppo."
Nella mia recensione ho scritto che, a parte le dichiarate influenze del gotico, di Landolfi e Tarkovskij, nel tuo libro sono ravvisabili reminiscenze del decadentismo italiano e dell'introspezione sveviana. Condividi questa analisi?
"Sì. Il decadentismo è presente ed agisce "alle spalle", se così posso dire. Se mi permetti, infatti, è d'obbligo fare una precisazione. Il decadentismo presente in Racconto d'inverno è una direttrice da inquadrare in una prospettiva storica più determinata. Affermare infatti che Racconto d'inverno sia opera decadente sarebbe azzardato. Credo infatti - purtroppo - che con questo romanzo non si esca dal territorio sterminato (dal punto di vista materiale) e allo stesso tempo angusto (da un punto di vista artistico) del postmoderno. Racconto d'inverno infatti è opera citazionista e non solo; parte d'attacco dall'incipit di Racconto d'autunno di Landolfi, denuncia prestiti dichiarati da un codice linguistico addirittura estraneo a quello letterario (il film Stalker di Andrej Tarkovskij); in più, come se non bastasse, contamina il testo letterario con una composizione musicale e dichiara apertamente, sin dalla quarta di copertina, che non di sola letteratura si tratta, ma di due opere in una o di una sola scritta con due linguaggi… insomma, ce n'è d'avanzo per definire Racconto d'inverno una lavoro ascrivibile in tutto e per tutto alla ampia e dominante area del postmoderno.
Ma in effetti il richiamo al moderno (e quindi al decadentismo) è comunque evidente. Per definire meglio il concetto mi piace usare un'immagine. Se devo collocarmi dentro il postmoderno (scelta obbligata in un mondo in cui la digitalizzazione, l'elettronica e la globalizzazione hanno frammentato il territorio fino a farlo implodere in escrescenze di dubbia natura come i
non luoghi ben descritti dalla antropologia di Augé e dalla sociologia di Bauman), allora mi metto "di spalle". E mi metto di spalle perché ho "nostalgia" del moderno. La mia è una letteratura e una musica che esprime una "nostalgia del moderno" a partire, evidentemente, dal postmoderno. Ci sono dentro fino al collo perché sono figlio del nostro tempo. Ma si esprime in me una tensione verso una metanarrativa che rimane estranea al postmoderno ortodosso con le sue tendenze più ortodosse, che immagino alla stessa stregua di una deriva inarrestabile non solo dell'arte, ma anche della cultura e dell'intera civiltà occidentale.
In fondo, gli agganci con la letteratura di Landolfi e soprattutto con il cinema di Tarkovskij sono uno degli elementi di questa prospettiva. Un tentativo di riazzerare la questione per gettare di nuovo le fondamenta di un discorso sul mondo. Al di là dei media e nonostante i media. Non vorrei farmi raggirare troppo facilmente. È vero, sono un figlio degli anni del boom economico, allevato con la TV di stato e poi sgrossato al postmodernismo da quella commerciale. Intasato di pubblicità e gas di scarico. Rialfabetizzato dalla rete e dall'informatica. Sbattuto in un fascio di bit elettronici e digitali. Ma sono un uomo. E l'albero vicino casa mia è un albero. E mia figlia è una bambina che mi insegna da zero l'abc di un'esistenza non compromessa. E i miei alunni stanno a dimostrarmi tutte le mattine che c'è qualcosa di più vasto in ognuno di loro e che non è possibile eluderne la realtà. Qualcosa di scomodo, è ovvio, di faticoso e da affrontare con costanza, con pazienza, senza sconti.
Per tutto questo sono un postmoderno che lavora per la morte del postmoderno.
E
Racconto d'inverno è un atto terroristico puro, pieno d'amore, contro la letteratura e la musica contemporanee. Contro una deriva culturale ben rappresentata dalle cosiddette "nuove tendenze"."
"Racconto d'inverno", come romanzo, è destinato a stupire chi già conosce - e ovviamente apprezza - il Leonardo Bonetti criptico ed ermetico degli Arpia "storici". Questa tua nuova tendenza a esplicitare con grande abilità e dovizia di particolari i paesaggi della natura e gli stati d'animo faceva già parte di te, oppure s'è sviluppata negli ultimi tempi come sedimentazione di esperienze passate?
"Non so risponderti che facendo un passo indietro. Non credo di essere responsabile fino in fondo per aver sviluppato questa determinata qualità. L'analitica descrizione degli interni e la predisposizione ad una espressione lirica del paesaggio si sono sviluppati con il racconto e per il racconto. E dentro l'ottica di un personaggio che parla al posto mio. Sono stato addirittura assediato da lui per mesi. Me lo ritrovavo prima di dormire, a muoversi, a pensare dentro di me."
Ampliando quest'ultimo tuo concetto, si dice spesso che un libro, e più in generale un parto artistico, è sempre e comunque autobiografico perché chi lo concepisce vi riversa giocoforza il proprio vissuto. Limitandoci adesso all'accezione comune del termine, nel tuo romanzo c'è un personaggio specifico nel quale hai inteso travasare parte del tuo essere? Oppure, appunto,  vi sono varie peculiarità disseminate qua e là?
"Ho già affermato che non posso essere considerato come l'artefice dell'opera in tutto e per tutto, e che i personaggi mi sono cresciuti dentro impossessandosi di ogni spazio possibile, ma è anche vero che questa spiegazione è con ogni evidenza insufficiente. Perché bisognerebbe anche aggiungere che qualcosa di me si è disseminata davvero in ogni cosa, persino negli alberi o nelle rocce. Che io mi sono liquidato fino all'ultimo respiro in ogni aspetto del testo. Di più, che io sono persino evaporato, che il mio corpo stesso è evaporato incarnandosi nelle parole."
Passando al disco, e partendo dall'impatto esteriore, penso che agli appassionati non sia sfuggito che le copertine di "Terramare" e "Racconto d'inverno" sono sostanzialmente simili, mentre i contenuti (o perlomeno i modi con cui sono estrinsecati) divergono assai. Una discontinuità nella continuità?
"Spero che possa essere interpretata in questo modo, perché la continuità io la vedo anche nella sostanza musicale. Pur con un forte cambio di marcia contrassegnato, ad esempio, dal passaggio materiale di cui ho fatto esperienza passando dal basso alla chitarra acustica. In più l'entrata in pianta stabile di Paola alla voce ha determinato in maniera ancora più accentuata questa soluzione di continuità. Ma non credo che, nonostante le differenze indubbie con Terramare, il nostro ultimo lavoro possa essere considerato come una frattura nel percorso artistico che portiamo avanti ormai da venticinque anni. E l'opera di Ettore Frani, lo straordinario pittore autore di entrambe le copertine e, anche, di quella del libro, rappresenta profondamente questo indissolubile legame tra i due lavori."
E' comunque fuori di dubbio che "Racconto d'inverno", versione CD, sia un po' spiazzante se raffrontato alla vostra produzione precedente. Certo, tratti acustici li avevamo già ascoltati in passato, ma sinceramente non ci si aspettava un intero disco unplugged. Come mai questa 'sfida', peraltro brillantemente superata?
"Non l'abbiamo decisa né voluta. È venuta così, da sola. D'altronde il nostro metodo creativo è sempre stato contrassegnato da una libertà pressoché assoluta. Che a volte mette in difficoltà, come sempre dovrebbe accadere, soprattutto noi stessi. Abbiamo dovuto elaborare molto per questo passaggio, infatti. Ma si tratta di un fenomeno naturale, credo. Come in tutte le crescite. Si passa per infinite crisi e si fa qualche passo avanti. Ma spero che non sia finita qui, ovviamente. Tutto questo è possibile solo perché l'unico nostro interesse è volto all'espressione. Non abbiamo pruriti "comunicativi", non cerchiamo facili successi, non dobbiamo rendere conto a nessuno e andiamo per la nostra strada consapevoli che i risultati ottenuti sono sempre parziali, che l'impegno profuso non è mai sufficiente, che la dedizione che richiede un compito di questo genere è del tutto inadeguata alla sfida. Ma ci proviamo, tutto qui. D'altra parte non abbiamo alternative. Arpia vive solo in questa eterna tensione vitale."
Per quasi vent'anni Arpia ha contato solo sul 'sacro trio' Bonetti-Brait-Orazi; anche il nome stesso del vostro studio e quartier generale, Cenacolo Arpia, ha sempre solleticato in tutti noi fantasie circa una setta misteriosa, o almeno un circolo per adepti a numero rigorosamente chiuso... Avevamo già accennato che negli ultimi due dischi vi siete però avvalsi di collaborazioni esterne, e adesso la bravissima Paola Feraiorni è stata addirittura inserita nella line-up. Da quanto avevate notato l'eccellente voce della Feraiorni?
"Sì, in effetti nel nome del nostro studio aleggia un po' troppo mistero. Ma in realtà è legato al fatto che di cenacolo a tutti gli effetti si trattava, in un primo momento. All'entrata una piccola cucina ci assicurava qualche pasto frugale tra una sessione di prove e l'altra. Ma alla fine la musica ha prevalso conquistandone gli spazi già esigui.
Il trio di base Bonetti-Brait-Orazi rimane il nucleo di Arpia, ma gli innesti dell'ultimo periodo non sono certo marginali. Basta pensare a Paola e alla sua voce! La conosciamo da ormai venti anni circa. Non è quindi nuova al Cenacolo Arpia. E l'abbiamo stimata sin dalla prima volta in cui l'abbiamo ascoltata dal vivo, quando ancora faceva parte di un gruppo di amici e musicisti, gli Histirya. Io trovo la sua voce e le sue interpretazioni davvero straordinarie."
Avete attraversato un lungo periodo nella storia rock del nostro paese, partendo dalla fase in cui il digitale era ancora poco diffuso e si facevano demo su cassetta, fino all'epoca attuale dominata, forse irreversibilmente, da Internet. Sempre, tuttavia, avete inteso mantenere il controllo totale su quanto incidevate. Com'è che, per l'ultimo CD, avete optato per la Musea?
"Il nostro amico Richard Tedeschi, che è anche il nostro manager e vive in Inghilterra, ha avuto contatti con la casa discografica francese che si è dimostrata subito molto interessata al nostro progetto. Così in pochissimo tempo abbiamo concluso e firmato il contratto. Anche perché ci hanno dato la possibilità di gestire in completa libertà la registrazione e la produzione artistica del cd."
Vi ho visti dal vivo nel lontano 1995, presso l'ormai defunto Centro Sociale "Indiano" a Firenze. A parte il vostro malessere e imbarazzo per le condizioni non certo ottimali con cui doveste eseguire quel concerto, ricordo comunque una band molto quadrata, musicalmente e anche concettualmente. Qui a Firenze, purtroppo, per l'underground le cose non sono certo migliorate, anzi: i gruppi emergenti denunciano la cronica mancanza di locali e situazioni opportune. Dalle vostre news, invece, noto che, almeno per quanto riguarda l'hinterland romano, ora siete riusciti a procurarvi diverse occasioni per proporvi live. Può darsi che la semplificazione logistica dovuta al'assetto unplugged faciliti un po' le cose, dischiudendo anche spazi inusuali come gallerie d'arte e affini? O forse Roma offre comunque più opportunità rispetto a Firenze?
"No, credo che Roma e Firenze denuncino scarsità di locali come d'altronde la maggior parte delle città italiane. Diciamo che, come tu suggerisci, il modo stesso di proporre Racconto d'inverno ha facilitato la possibilità di esibirsi in situazioni e contesti altrimenti impraticabili. Ad esempio abbiamo esordito in un'Abbazia cistercense nei pressi di Roma per la Settimana della Cultura organizzata dal Ministero delle Belle Arti. Dubito che avremmo potuto farlo con un concerto elettrico come Terramare!"
Sovente, e in sostanza a ragione, c'è chi si lamenta che oggigiorno non si legge più, e anche la fruizione della musica è profondamente mutata, specie fra le nuove generazioni: in giro vedi solo lettori mp3 e cuffiette, e lo stesso oggetto-CD pare destinato a una veloce pensione. Voi, per contro, proponete un libro e un disco. Cosa vi fa perseverare nella vostra... meravigliosa follia anticommerciale? Sei ottimista o pessimista riguardo al futuro?
"Sono profondamente pessimista. Il che equivale a dire che sono un inguaribile ottimista. Altrimenti non scriverei né comporrei musica. Quando tutto va a picco e non c'è più speranza, proprio quando le possibilità di rinascere sono ridotte al lumicino, rimane sempre qualcosa a sorprenderci, conficcata dentro di noi. Una risorsa inaspettata che ci toglie d'impaccio, che ci dà una spinta: e allora andiamo ancora avanti; magari si tratta ancora solo di pochi passi, ma testardamente si avanza, contro tutto e contro tutti.
Concludo ringraziandoti per la disponibilità, per la cura e l'amore che riversi in modo disinteressato nei confronti della musica e dell'attività artistica in generale.
Un grazie va anche ad Arlequins che si dimostra sempre come uno spazio libero e attento alle realtà musicali più vive."
Contatti:
www.arpia.info.

Francesco Fabbri

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